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Giovanni il «belgese»

Spiritualità

Giovanni aveva lasciato la sua famiglia al paese, quando aveva appena superato i quarant'anni. Era partito per il Belgio a lavorare in miniera, e tornava a casa una o due volte all’anno, a Natale, durante l’estate, e quando m’incontrava mi parlava sempre in «belgese[1]».

«Era una lingua strana che aveva imparato, come diceva lui, in mezzo ai belgesi che frequentavano i bistrots».

Tra di noi, c’era un feeling perché parlavamo entrambi, appunto, quella lingua astrusa e, soprattutto, perché mio padre era stato anche lui minatore.

Lo vedevo sempre in movimento, si spostava continuamente e, quando era solo, stringeva un rosario nero tra le mani e pregava sottovoce.

Una sera d’estate, quando rimanemmo da soli sulle «Scale della Speranza», mi parlò fino all’alba della «poussière[2]» che si annidava nei polmoni dei minatori, del senso di claustrofobia che provava sottoterra e del tempo impervio che esasperava la sua nostalgia.

«Nel paese, dove abito in Belgio – mi disse, accarezzando il rosario che era magicamente comparso nelle sue mani – non c’è nemmeno uno straccio di chiesa dove poter pregare Sant’Antonio».

Le sue parole, pronunciate lentamente, vibrarono in modo premonitorio sulle sue labbra e si dispersero in mezzo a quella nebbiolina effimera che precedeva il nascere del sole.

Passarono alcuni anni ed io lo persi di vista. A dire il vero, pensavo che si fosse trasferito in Belgio con la sua famiglia, ma durante le vacanze estive del 1980 lo incontrai per caso davanti alla chiesa.

Era precocemente invecchiato, sembrava un ottantenne: fumava in continuazione e faceva fatica a respirare. Mi riconobbe immediatamente e cominciò a parlare.

«Parlo volentieri con te perché non mi dici, come fanno tutti gli altri, che parlo il «giargianese[3]».

«Come stai, Giovanni?» gli chiesi sommessamente, con il timore che potesse darmi una brutta notizia.

«Te lo ricordi mio figlio Antonio?».

«Certo che me lo ricordo, abbiamo fatto il C.A.R.[4] insieme a Teramo. Poi, io sono rimasto a fare l’alpino a L’Aquila, mentre lui è stato assegnato al nord Italia».

Giovanni inghiottì faticosamente la saliva e continuò a parlare a bassa voce:

«É morto durante il suo viaggio di nozze. Voleva assolutamente far vedere a sua moglie la caserma dove aveva fatto il militare. L’incidente è stato violentissimo. È morto sul colpo, per fortuna. I pompieri si sono accorti che ci fosse un altro passeggero sulla macchina perché hanno trovato una scarpa di donna. Lo schianto è stato così terribile che lei è letteralmente volata fuori dal finestrino e l’hanno ritrovata su un albero. É rimasta in coma per qualche mese, ma ora è fuori pericolo».

Lo guardavo sgomento, senza riuscire a proferire parole.

Notai soltanto che si sentiva liberato perché era riuscito a parlarmi della tragedia immane che lo aveva sconvolto.

«Per fortuna che c’è Gesù Cristo che pensa a tutto, mi disse alzando gli occhi verso il cielo, se non avessi la fede non so come farei a sopravvivere a questa disgrazia. Sono devoto a Sant’Antonio.

Sto costruendo un monumento sacro in suo onore all’entrata del paese… L’hai visto?».

Non risposi alla sua domanda.

Abbassai gli occhi e cercai di trovare qualche parola di conforto per attenuare il suo dolore ma non ci riuscii.

Si allontanò lentamente, tenendo stretto tra le mani il suo rosario e recitando sottovoce le preghiere.

Qualche mese dopo, quando ormai mi ero definitivamente trasferito in Lombardia, mia sorella mi telefonò e mi comunicò una notizia che mi sconvolge ancora oggi.

Giovanni il «belgese», dopo aver portato a termine il tanto agognato monumento, scomparse misteriosamente un Venerdì Santo…

Dopo qualche giorno di ricerca, alcuni volontari della Croce Rossa lo trovarono crocifisso su una croce di legno, che aveva appoggiato sulla superficie della grotta, e dopo essersi piantato dei chiodi ai piedi e alla mano sinistra si era posto in croce, come Gesù Cristo, sbattendo violentemente la mano destra contro il palo orizzontale della croce a cui aveva precedentemente piantato un chiodo al rovescio.

Ogniqualvolta torno ad Amardolce, vedo il monumento costruito in onore a Sant’Antonio all’entrata del paese, sempre ornato di fiori freschi, penso a Giovanni il «belgese» e soprattutto alle sue parole che mi rimbombano ancora nelle orecchie, come i rintocchi di una campana che suona a morte a cui non ho saputo prestare attenzione.



[1] Il «belgese» era, secondo lui, il francese che si parlava in Belgio.

[2] La «poussière», polvere in francese, era la causa della silicosi.

[3] Il «giargianese» è una specie di grammelot, ossia una lingua inventata.

[4] Il C.A.R. è il Centro Addestramento Reclute.



Sergio Melchiorre 30/11/2011 20:29 1 1322

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Commenti sul racconto Commenti sul racconto:

«che dire... è un racconto che lascia basito il lettore!
traspare sofferenza da queste righe, quel dolore intimo che ogni genitore sa di aver dentro di se, al sol pensiero di "sopravvivere" ai propri figli.
e la fede? la fede è in quel monumento a S. Antonio costruito fuori dal paese!
un monito quasi! un ricordar di quanta effimera sia l'esistenza.
e la pace? ...quella vive, in diversa misura in ognuno di noi! ma pochi sanno amministrarla.
è un racconto che fa riflettere... su tutto quello che può accadere a ognuno di noi!
c'è chi cerca fortuna altrove... e trova dolore e angoscia, dove pensava di aver seminato vita!
molto bello! straziante, ma devvero bello.»
Saverio Chiti

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