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Questo racconto è inserito in:
 Parte 21 della raccolta "Storie di Famiglia " di Carlo Fracassi (35 racconti)
 Come eravamo

Quelli del Bar Diana (Gli amici del cuore)

Biografie e Diari

Tito Livio Ricci (Livio), Piero Maturo (Pierino), Mario Marchini (il Dottor Lais) Franco Rattini (il rattinaccio brutto) meritano certamente menzione a parte perché ci fu un lungo periodo che vide alcuni di noi uniti come fratelli siamesi.

Livio era senz’ombra di dubbio il leader di questo piccolo gruppo. Grande giocatore di poker e bluffatore, dotato di notevoli capacità dialettiche ed assertive, sembrava aver avanti a sé un futuro luminoso come poeta e scrittore ma, pur rimanendo nel campo dell’editoria, non fu così, tant’è che gli ho dedicato una delle mie poesie.

Frequentavamo tutti, giorno e notte, la casa di Livio, una catapecchia con tanto calore umano. Ricordo il padre Giovannino, gran pensatore vinto dalle intemperie della vita; sulla sua storia, intrecciata con quella del figlio maggiore Anacleto (Nini), alias Michele D’Arcangelo, si potrebbe scrivere un romanzo, tant’è avvincente ed intrigante. La mamma Linda, premurosa e ospitale ci accoglieva sempre con un sorriso. Eravamo sempre tutti lì, specialmente nei giorni festivi, per giocare a poker. Livio vinceva sempre, sia per grinta ed anche per fortuna ma quando sei grintoso, anche la fortuna ti sorride. Il fratello Michele di dieci anni maggiore si univa talvolta al tavolo, soprattutto quando c’erano i suoi amici coetanei: Luciano Pecci, Franco Mazzolani e Giancarlo Gasparri. Non usavamo le fiches ma mettevamo la piletta dei soldi sul tavolo, monete da 100, 50, 10 e 5 lire. Alla fine del gioco sul tavolo non rimaneva nulla, noi perché avevamo perso tutti i soldi che avevamo, i fratelli Ricci perché di mano in mano che vincevano se li mettevano in tasca. Fra i diversi giocatori occasionali ricordo Giorgio Arpesella (Giorgino), Pier Paolo Capelli (Netti), Paolo Anelli e Giancarlo Zanotti (Cirullo). A far le più grosse spese era tuttavia Franco Rattini che aveva con sé sempre molti soldi, regolarmente sottratti dal cassetto del negozio di calzature che i suoi possedevano sotto casa in via Garibaldi.

Livio ed io, quando d’inverno le rare volte che la domenica andavamo a ballare in qualche pensioncina al mare, facevamo coppia per vedere se riuscivamo a spennare altri sfigati come noi che ballavano poco e male e ci sapevano fare poco e male con le ragazze. Spesso ci avventuravamo anche in bar, dove non ci conoscevano e giocavamo a “Goriziana” al biliardo a boccette: o la vittoria o la fuga! Ricordo che una sera andammo al Bar del Supercinema, io avevo 55 lire, Livio niente. Trovammo altri due della nostra età e tentammo la sorte. Ci andò bene quella volta. La prima partita la vinse Livio con due memorabili calci e con molti punti di distacco, la seconda la vinsi io facendo dopo pochi tiri “Goriziana”. Gli antagonisti s’arresero subito e pagarono. Andammo al cinema con le 500 e più lire guadagnate, i biglietti costavano 200 lire l’uno. C’è da dire che, sia Livio e soprattutto io, eravamo due grosse schiappe a biliardo ma quella sera la sorte ci fu amica.

Livio non era solo abile e grintoso nel gioco, eccelleva nel parlare e nello scrivere. Ricordo un tempo a Milano, ai primi degli anni ‘60 in Piazza Duomo, tener testa a più di un politico di mestiere e farlo zittire perché ormai privo d’argomenti a suo favore, mentre lui rilanciava sempre, come al gioco; fu lì che per la prima volta sentimmo un tale che si dichiarava un democristiano di sinistra.

Eravamo sempre insieme giorno e notte, spesso facevamo l’alba accompagnandoci a casa vicendevolmente, una volta io, una volta lui e poi ricominciavamo daccapo; spesso l’uno si fermava a dormire dall’altro. Lunghissime discussioni di natura politica ed esistenziale erano le nostre preferite. Livio fissava, sulla carta ed anche sui muri di casa, aforismi. Lo ammiravo per questo saper fare e quando mi capitava di scrivere una lettera d’amore a qualche ragazza gli chiedevo di vergare qualche pensiero che trovavo sempre di un romanticismo molto struggente e capace di aprire la porta segreta di ogni cuore.

La nostra amicizia è perdurata nel tempo, nonostante i nostri radicali cambiamenti. Recentemente ci siamo incontrati. Ci unisce certamente il ricordo di una vita comune che fu la nostra ma ora non più. Da promettente poeta e scrittore in gioventù, Livio non ha più scritto una riga di poesia, mentre io, al contrario, ho iniziato per caso, ma poi ho continuato scrivendo ad immagine di ciò che mi aveva trasmesso. In quell’occasione ha letto di sfuggita alcune mie opere. La sua critica non è stata affatto benevola, mi ha detto che non era il suo genere preferito il modo in cui scrivevo. Le sue parole hanno pesato come un macigno ed ho pensato che avevo fatto la stessa fine di Poldo (il sarto sedicente scrittore). Accortosi del mio incupimento, Livio ha cercato di rimediare, ma io ci ho riso su ed ho subito approfittato per fargli “ingoiare” la poesia che gli avevo dedicato: “Morte di un poeta”. Un sorriso amaro è affiorato sulle sue labbra.

Con Piero Maturo (Pierino), l’amicizia fu d’altra natura, prevalentemente incentrata sui racconti concernenti i suoi successi con il gentil sesso. Non sono mai stato al suo pari nelle conquiste, non avevo, né il suo “phisique du rôle”, né quelle maniere garbate e salottiere che gli conferivano un notevole appeal. Le donne io me le sono sempre dovute conquistare, spremendomi le meningi e facendo lavorare quel poco di materia grigia che possiedo. Dalla sua Piero aveva anche la grossa opportunità rappresentata dalla Pensione Sorriso pullulante di ragazze che guardavamo dai buchi delle cabine al mare, mentre si spogliavano. Solo due anni più tardi, quattordicenni, passammo ai primi veri e timidi approcci. Insieme a Piero comprai ed indossai il primo completo jeans, costituito da pantaloni, giaccone, maglietta girocollo bianca e scarpette da tennis. Fummo i primi nel mio quartiere ad esibirci in tale performance e i ragazzi più grandi, oltre alle femmine, ci guardavano con curiosità ed interesse.

Fu con Piero e Giorgio Arpesella (Giorgino) che nel 1959 feci la mia prima vacanza che non fosse presso un parente o un conoscente dei miei. Andammo per dieci giorni a Napoli e di lì raggiungemmo Pompei, Sorrento, Ischia, Capri, Caserta, e Riardo Pietramellara, dove nasce la sorgente della “Ferrarelle”, paese d’origine del padre di Piero. Andavamo spesso a mangiare da “Pizzicato” un ristorante self service in piazza Municipio (primo, secondo, contorno, frutta e bibita con 200 lire!). Vedemmo gli sciuscià attaccati ai tram e giocare di notte sotto un lampione con la piletta delle monete da 5 e 10 lire. Imparammo che c’era l’uso diffusissimo della mancia, anche alla maschera del cinematografo. Un bicchiere d’orzata o di succo di cocco costava 10 lire, come pure un ghiacciolo. Una pizza e una birra nel migliore Ristorante di Posillipo a picco sul mare costavano 100 lire servite al tavolo; le prostitute alla stazione 95, così ci raccontò il cameriere. Guardavamo incuriositi quelle donne vestite tutte di nero, come da noi si usava per il lutto e, sempre il cameriere, ci disse che quelle erano prostitute, da loro quando si era in lutto ci si vestiva di bianco. A Riardo il prete ci fece notare che per tutto l’inverno successivo la gente avrebbe parlato di noi: “i forestieri”, perché lì era un avvenimento, non veniva mai nessuno! Comprammo tre gelati, Piero ed io alla fragola, Giorgio al caffè. Quella notte, smarrito il sentiero per una casetta in montagna, di proprietà di uno zio di Piero, riparammo in un granaio, dove al lume di candela ci giocammo a carte il privilegio di chi avrebbe dormito nel mezzo, per stare al riparo dai tanti insetti che camminavano sul rustico del pavimento. Vinse Giorgino. Piero ed io prendemmo l’orticaria e il nostro corpo si riempì di pustole, ma non capimmo mai quanto imputare alle fragole e quanto agli insetti che ci avevano punto nella notte. Giorgino rimase indenne. Ai contadini che ci ospitarono regalammo una scatoletta intonsa ed una cominciata di Simmenthal. Ringraziarono a non finire e ci offrirono una cassa d’uva-moscato che ingozzammo lungo il cammino di ritorno al paese per non dover trasportare il pesante ingombro. Smaltimmo il giorno dopo tutti i bubboni con un salutare tuffo dagli scogli d’Ischia.

Nel gestire i soldi che avevamo, Giorgino si dimostrò parsimonioso, io moderato, Pierino spendaccione. Eravamo partiti per Napoli, io con 10.000 lire, Pierino con 15.000 e Giorgino con 25.000 più un assegno di riserva da 50.000 lire. Quell’importo lo feci bastare fino alla vigilia della partenza. Pierino ebbe ancora in regalo dallo zio notaio di Caserta 5.000 lire ma negli ultimi giorni rimase all’asciutto. L’ultimo giorno anch’io ero rimasto a secco e chiedemmo a Giorgio, che aveva ancora del contante e l’assegno intatto, di farci un prestito ma lui fece lo gnorri. Fu così che c’intanammo sotto il suo letto per passare l’ultima notte, ma il portiere dell’albergo ci stanò e ci cacciò via. Dormimmo alla stazione ferroviaria sopra le valige per tema che ce le rubassero.

Quella vacanza inaspettata m’è rimasta fra i ricordi più cari. Inaspettata poiché, mai e poi mai, i miei genitori m’avrebbero dato 10.000 lire, se non fosse stato che un semplice esaurimento organico fu preso dai dottori per una malattia misteriosa e in quell’occasione i miei, mio fratello compreso, temettero per la mia vita, lasciandomi sfogare come più mi piaceva.

Le estati successive si susseguirono con Pierino che mieteva successi a dritta e a manca con le donne, anche Giorgino era molto corteggiato, io come il solito arrancavo ma me la cavavo. Piero, dopo aver fatto una carriera lampo nel management d’impresa in Aziende di prestigio (Pirelli, Standa, Morassutti, Associazione Industriali di Udine) si mise in testa di fare il rappresentante di calzature e di qui la sua debacle finanziaria. A suo tempo lo sconsigliai vedendolo più come persona di relazioni pubbliche piuttosto che come venditore d’assalto, ma non volle ascoltarmi.

Mario Marchini (il Dottor Lais)

Era il più anziano del nostro gruppo, mi fu presentato da Livio a casa sua. Il Dottore era un tipo strano, non era mai d’accordo su nulla, come tutte le persone insicure, ma in realtà era un grande pacioccone. Leggeva tutto quello che gli capitava per le mani; era il suo modo di compensare le carenze culturali che avvertiva e di cui, intimamente, soffriva. Il primo soprannome, “il Dottore” gli fu appioppato alla balera da “Pagnoc” (me lo disse lui), perché ballava, posando con ostentata eleganza una mano sul fianco. Qualcuno, osservandolo gli disse: “Tbal che t’am per un Dutor!” e quel nomignolo gli restò per sempre. Lais, invece, glielo affibbiò Paolo Corbelli detto Paolino e Paolone quando crebbe.

Paolone, che aveva diversi anni più di noi, ma sempre coi calzoni corti, vagava per le strade con una scopa in mano e senza meta, molto dimesso nel vestire, la faccia e i denti da scimpanzé che teneva discretamente coperti con una mano davanti alla bocca. Capitava che s’incantasse davanti a qualcosa o qualcuno che gli piaceva o lo incuriosiva. Poi elaborava e ripeteva ossessivamente la stessa frase o la stessa parola, rivolto direttamente o indirettamente alla persona oggetto delle sue attenzioni. La frase preferita che diventava poi un tormentone era: “Sei normale te? Lui (Lei) è normale?”. Quella sera era in piazzale Kennedy sull’Ausa, se ne stava impalato davanti alla bancarella di bigiotteria gestita da Maria (cognata di Livio) e ad intervalli regolari le ripeteva: “Blina!… Blina!”. Quando arrivammo, Livio, il Dottore ed io, distolse lo sguardo da Maria e fissò a lungo il Dottore che aveva la mania d’affilarsi il lungo naso. Poi, rivolgendosi a noi disse: “Lui è normale?”. Il Dottore con fare divertito gli chiese direttamente: “Tu cosa dici? Che sono normale?” Paolone tacque a lungo, poi improvvisamente se ne uscì scandendo lentamente: “Dottor Lais… Dottor Lais”. Da quel momento Mario divenne il Dottor Lais per tutti, anche se Livio lo chiamava spesso “Nasi”.

Ricordo che un giorno eravamo al porto a fare il bagno, io, Livio ed altri amici. Nel riemergere dopo un tuffo battei la testa contro le taglienti cozze che crescevano lungo il bordo della banchina e risalii dalla scaletta di ferro in un lago di sangue. Fummo subito attorniati da una piccola folla di curiosi che vedendomi sprizzare sangue copiosamente erano accorsi. Mentre cercavo di tamponare la ferita con la maglietta, scorgemmo Mario che stava arrivando verso di noi. Qualcuno disse: “Sta arrivando il Dottore!” La folla di curiosi fece largo pensando veramente che Mario fosse un medico, dato ch’era vestito di tutto punto (al tempo lavorava per Patacconi, un noto Tour Operator) e dimostrava certamente più dell’età che aveva. Il Dottore disse: “Fammi vedere” e puntò il suo lungo naso su quello sbrego che continuava a zampillare sangue; guardò e disse: “Non vi posso lasciare soli un momento che combinate guai! Qui ci vorrebbe un dottore”. La folla rimase attonita.

Mario continuò la carriera nel ramo turistico ma, forse anche a causa del suo caratterino, non ebbe fortuna. L’ultima volta che lo incontrai fu nel 1996 (credo), era disperato e senza lavoro, cercai d’aiutarlo fissandogli un colloquio con un mio ex allievo Direttore marketing presso l’Eden Viaggi di Pesaro che a sua volta lo presentò al Direttore Generale. Mi fece fare una figura di merda. Penso che avesse già perso la testa e non fosse più in sé. Il giorno di Natale dello stesso anno si tolse la vita a Londra buttandosi dalla finestra dell’appartamento della sua ex moglie che l’aveva pietosamente ospitato per l’occasione. Telefonai a Livio per l’accaduto e pianse amaramente: lui e il Dottor Lais furono legati da profonda amicizia, forse più stretta di non quella che lo legava a me e a Piero.

Franco Rattini (il rattinaccio brutto)

Lo conobbi in seconda media dai salesiani a Rimini, aveva già perso alcuni anni scolastici ma concluse bene gli studi fino in terza, poi me lo ritrovai in collegio sempre dai salesiani a Forlì, aveva ancora perso un anno ed era come me destinato ad interrompere gli studi. La nostra frequentazione fu soprattutto la casa di Livio, dove gli era stato affibbiato il nomignolo di “il rattinaccio” con la successiva aggiunta di “brutto” quando veniva descritto a qualcuno che non lo conosceva, per far capire subito che era veramente brutto.

Regolarmente veniva a perdere a poker i soldi che non mancava di sottrarre quotidianamente dal cassetto del negozio. Credo che di lui approfittassimo sempre un po’ tutti.

Non bazzicava il nostro bar, perché i suoi erano quelli degli ambulanti in piazza Mazzini o in via Garibaldi, quindi il nostro punto d’incontro era da Livio e come tutti noi era di casa, passava più tempo lì che altrove. Come altri, anche “il rattinaccio” era abituato a raccontare balle colossali e quando ci disse che invece di continuare a giocare a carte preferiva dedicarsi alle femmine non gli credemmo, ma in quel caso i fatti presto ci smentirono. Mise incinta una ragazza e a ventun’anni la sposò. Il compare d’anello fu il Conte Francesco Ferrari (Cecco); Livio, Piero, il Dottore, Geppe Anelli ed io, gli amici del cuore, invitati al pranzo che si tenne allo storico Ristorante “d'e' Gnaf”(1) a pochi passi dal Bar Diana. Il Conte durante il pranzo continuava a far piedino a Piero, io mi ubriacai e andai a smaltire la sbornia nel letto matrimoniale di Livio fra lui e Geppe, anche loro molto avvinazzati!

Frequentai in seguito Franco quando anch’io mi sposai prestissimo, ma la cosa fu di breve durata, poi ancora molto più avanti negli anni lo incontrai spesso al Ristorante Liberty, dove ogni giorno mi recavo a mangiare. Prossimo ai sessant’anni: un matrimonio fallito alle spalle, un terzo figlio avuto da un’altra donna che presto lo lasciò ed una fidanzata fresca fresca di vent’anni, tanto giovane quanto bruttina. Mise incinta anche lei che abortì e fece un altro figlio con un giovane ambulante. Franco chiuse il negozio che era già ridotto come una catapecchia, della casa sovrastante ne fece un cimiciaio ma ancora per qualche tempo l’abitò, andando a vendere scarpe (il lavoro di sempre) al mercato con il fratello Girolamo, poi si dette a tempo pieno all’alcol, passando dall’albergo che lo ospitava all’ospedale. Ormai la sua sorte era segnata.

Il piccolo spaccato riguardante gli amici del Bar Diana e gli amici del cuore che abbraccia il periodo 1957-1963 finisce qui, anche se rappresenta solo un’infinitesima parte dei tanti ricordi di quel mitico periodo, come quando alla chiusura bar, in primavera a notte fonda, salivo sui tavolini e cantavo a squarciagola le romanze: “e lucean le stelle” “nessun dorma” o canzoni: “’Na sera ‘e maggio” “’O sole mio” …ma questa è un’altra storia, come avrebbe detto Moustache, gestore del bistrot frequentato da Irma la dolce…

Nota

(1) Quando si parla di gastronomia riminese, quella storica e tradizionale, non si può non parlare di Salvatore Ghinelli, meglio conosciuto come “e Gnaf”, soprannome che letteralmente significa “il camuso”, ossia colui che ha il naso rincagnato. Egli aprì un famoso ristorante proprio nel centro cittadino e fu l’autore di un fortunato manuale di cucina. Questo curioso personaggio nacque a Rimini nel 1873 e mosse i primi passi della professione presso l’albergo-ristorante “Leon d’Oro”, che si trovava in piazza Cavour. Da qui poi, dopo altri impieghi in alberghi e navi da crociera, prese servizio nella cucina della Principessa di Venosa. La nobildonna era una grande amica di Gabriele d’Annunzio e si dice che il Vate impazzisse per alcuni piatti del riminese. Ritornato nella città adriatica, Ghinelli aprì prima una trattoria e poi il ristorante “San Michele” nell’omonima via dietro piazza Tre Martiri che a quel tempo si chiamava Giulio Cesare. Siamo intorno agli anni ‘20 e il celebre ristorante continuò a vivere fino a una ventina di anni fa, gestito, dopo la morte del fondatore (avvenuta nel 1939) dai nipoti. Oggi, segno dei tempi, tra quei muri c’è un ristorante cinese! Al San Michele si poteva mangiare carne e pesce; ma sembra che Ghinelli fosse insuperabile nei risotti di pesce, le cui ricette sono arrivate a noi grazie al manuale dato alle stampe.



Carlo Fracassi 19/12/2010 17:36 2146

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I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.


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Nota dell'autore:
«Tratto da "Storie di Famiglia" di recente pubblicazione.»

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