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Poveri pensionati

Sociale e Cronaca

Quando si esce dalla testimonianza puramente soggettiva e si cerca di comprendere il sociale la generalizzazione è pressochè obbligatoria, senza servirsi di essa qualsiasi sguardo sul sociale sarebbe impossibile; ma, fatta salva questa necessità, una volta che lo sguardo si è spinto a sufficienza nel generale, non dovrebbe isterilirsi in questa visione, ma dovrebbe anche saper retrocedere e, dentro quel generale, saper fare le opportune distinzioni ed anche qualche volta con la capacità di far rientro dentro il minimo particolare.

Sentirsi compresi in una generalizzazione in molti casi è bello e in altri brutto, in molti casi si gode di un occhio di riguardo, in altri di un pregiudizievole disprezzo, a volte il far parte, e molto spesso casualmente, di una generalizzazione invece che di un'altra è del tutto casuale e come lo è la fortuna o sfortuna che ne deriva, ma non mi allungo nei tantissimi esempi che intorno a questo si potrebbero riportare.

Questa lunga premessa in effetti la sentivo solo utile per ragionare su una generalizzazione stereotipata molto frequente e per la precisione quella dei “ poveri pensionati”.

Va detto, almeno per la mia opinione, che la ragione prima della sua esistenza, andrebbe probabilmente ricercata nel suffragio universale che fa di essi, i pensionati, altrettanti voti, ambiti da quanti soprattutto si incaricano di soffiare su questi stereotipi.

Con questo simbolismo si tende ad uniformare tutti i pensionati, creando di fatto nei loro riguardi una sorta di reverente pregiudizio tale da intenderli tutti come “ poveri pensionati”.

Per un corretto rispetto del significato delle parole sarebbe forse subito utile procedere con delle distinzioni così da poter stabilire senza dubbi quando davvero l'accoppiamento poveri e pensionati si possa considerare giusto.

Naturalmente nell'ambito dei valori correnti c'è molta relatività ma volendo stabilire un confine, per quanto opinabile, normalmente accettato, si potrebbe affermare che sotto la soglia di mille euro inizia la condizione di povertà.

Ma questa è soltanto una prima importante distinzione, a cui ne possono seguire molte altre non meno importanti.

Nell'attributo poveri, con cui spesso ci si riferisce ai pensionati, c'è, oltre al significato più letterale, anche un significato più astratto, con cui, con quel poveri, si vorrebbe anche intendere una condizione di ingiustizia, di cui essi sarebbero vittime, come se la condizione di “ pensionati” fosse quasi a priori una condizione di vittima.

In realtà su questo si potrebbero fare migliaia di distinzioni e, finito di farle, si arriverebbe alla conclusione che molti di questi più che vittime si potrebbero dire, sempre in modo simbolico, carnefici.

In teoria il diritto a una pensione dovrebbe derivare da contributi accantonati nel corso della vita lavorativa, e la pensione di diritto dovrebbe essere proporzionata a quanto versato; ma la storia del nostro impianto pensionistico ha tradito spesso e in modo scandaloso questa ovvia teoria.

E' un po' irritante una frase che si sente spesso ripetere e cioè che “ se non si crea lavoro per i giovani, vengono meno le risorse per pagare le pensioni dei vecchi”, è irritante per il fatto che, sempre in teoria, quelle risorse dovrebbero essere state in qualche modo accantonate nei tempi precedenti, per poter essere appunto restituite nel momento della pensione ed i contributi dei nuovi lavoratori dovrebbero risultare del tutto estranei a quelle pensioni; e davvero è irritante che una simile frase venga ripetuta e spesso senza che se ne colga l'assurdità.

Non è un segreto che tante leggi ingiuste abbiano contribuito a creare un esercito di pensionati che con percorsi di lavoro esigui hanno ricevuto sproporzionati ritorni di pensione.

Probabilmente un'attenta analisi di questo tipo di posizioni pensionistiche ne troverebbe un lungo elenco dove a variare sarà solo il gradi di ingiustizia.

Questi rintuzzano ogni critica con la formula del “ diritto acquisito”; forse sottovalutando che il privilegio non può essere confuso col diritto, e tanto più se questo privilegio, e come è ovvio, provoca ingiustizia verso il resto della società che da questo privilegio viene e esclusa e anzi ne paga il prezzo.

Trattandosi di un privilegio l'eliminarlo, almeno in teoria, più che violare un diritto, sarebbe solo un recupero di giustizia.

Molte di queste persone spesso amano annoverarsi fra i “ poveri pensionati” (a volte magari la loro pensione rasenta davvero il livello di povertà, ma questo non toglie che fin dall'inizio essa fosse semi- parassitaria) e non sembrano dimostrare nessun scrupolo morale nell'ammettere che quello che hanno ricevuto è già stato immensamente superiore a quanto dato; naturalmente sarebbe troppo pretendere un simile scrupolo e che qualcuno, forte di una legge, rinunciasse sua sponte a un privilegio; sarebbe troppo ma questo non toglie che sarebbe giusto.

Se rispetto alle pensioni esistono tali privilegi non può che essere, come ovvia conseguenza, che esistano anche tante discriminazioni, e cioè molte persone che pur avendo contribuito molto ricevono poi molto meno di quanto dato.

Allora quel “ poveri”, almeno in termini di giustizia, se può valere per questi ultimi, non può certo valere per gli altri.

Ma aldilà dell'ingiustizia con cui è stato amministrato il sistema pensionistico, servirebbe forse fare delle considerazioni sullo stesso concetto di pensione, se è giusto o sbagliato, e se davvero la sua esistenza di tipo universale abbia un senso.

Credo che lo scopo della pensione dovrebbe essere quello di consentire alle persone alla fine del lavoro di poter vivere in modo dignitoso e che compito della società (e questo anche perchè la società abbia una giustificazione per la sua esistenza) sia garantire con pensioni decorose questo diritto.

Ma in fondo questo dovere della società di garantire il “ diritto alla vita” non dovrebbe riguardare solo le persone di una certa età ed uscite dal lavoro, ma ogni persona che per qualsivoglia ragione e di cui non sia colpevolmente responsabile si trovasse impossibilitata a vivere; una risposta sociale che potrebbe corrispondere a quello che viene chiamato “ reddito di cittadinanza”; e lungo questa logica dovrebbe essere la parola pensionamento da considerarsi insensata, mentre il necessario intervento sociale dovrebbe essere tutto rivolto a questo “ reddito di cittadinanza”, e quella che oggi si chiama pensione non dovrebbe essere altro che una delle tante espressioni di questo.

Il senso di una società giusta ed evoluta si dovrebbe realizzare in una risposta reddituale dignitosa a tutte le persone, in modo universale,. Prive di altri mezzi di sopravvivenza; questo sostegno dovrebbe tendere al garantire una vita dignitosa e non costituire una fonte di arricchimento, l'uso di risorse pubbliche per rimpinguare persone magari già ampiamente dotate di mezzi personali non dovrebbe esistere; per questa logica riesce profondamente ingiusto che persone già straricche, vengano ulteriormente gratificate di pensioni cospicue e spesso più derivanti da privilegio che diritto.

Perchè, almeno in periodi di crisi economica, erogare delle pensioni a chi già gode di abbondanti risorse personali?

Questo ha poco a che vedere con i compiti di uno stato sociale, attento alla redistribuzione ed all'eguaglianza.

Pensione o reddito di cittadinanza dovrebbero solo rassicurare e garantire chi non ha e chi ha, almeno fin quando ha, ne dovrebbe rimanere escluso.

Il concetto di pensione è a mio avviso discutibile anche per un'altra ragione, e cioè per il suo definire, quasi costringere, il percorso della vita, rendere le persone simili ad automi, dove, a seconda dei recinti temporali in cui si trovano, corrispondere a delle aspettative prestabilite; in questa successione il recinto della pensione assomiglia sempre più a una camera di attesa, dove vegetare in attesa della morte e tutto sembra irrimediabilmente portare a sprofondare dentro questo spirito; e forse per questo spesso per molti la fine del lavoro si trasforma anche in una china depressiva che la morte più che allontanarla la accelera; esistono tante persone per cui fra lavoro e vita c'è una corrispondenza quasi totale e mancando l'uno è come se venisse meno l'altra e questo mio non vuol essere un giudizio di valore ma solo un senso di constatazione; per questo credo che creare questo genere di recinti sia un'operazione abbastanza violenta e che dovrebbe invece esistere, a seconda delle diverse indoli, una diversificazione volontaria dei percorsi e in fondo perchè si dovrebbe negare, a chi sente quella corrispondenza lavoro- vita di lavorare fino all'esaurimento totale? E magari per consentire, anche se potrebbe sembrare provocatorio, a chi non condivide quel binomio, ma sente anzi nella necessità del lavoro un ostacolo al suo sé, per consentirgli, e anche in giovane età, una vita almeno parzialmente emancipata dal lavoro?

Michele Serri 30/12/2016 23:02 992

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.


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