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Fuori dalle righe

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Fuori dalle righe

La mia non è stata un’ infanzia felice, ricordo quello sguardo duro di mia madre che mi trapassava di parte in parte ed io mi sentivo così piccola e fragile, un topolino nelle grinfie di un gatto. Sentivo che mia madre non mi amava, ne ero certa. Ero una fuori luogo e malgrado facessi di tutto per conquistare il suo amore ogni impresa mi sembrava vana. Mi parlava in modo severo ed io scomparivo in un angolo buio. Come una mendicante elemosinavo amore, un sorriso, un abbraccio. Ma perché mi aveva partorito? Perché non riuscivo a scalfire quel muro che ci separava? Lei era una donna materialista, dava importanza soltanto alle apparenze. Mostrava la sua bella facciata agli altri ma coi figli aveva un cuore duro come la pietra. Comprava dolcini e caramelle da offrire agli ospiti, che poi raramente venivano a trovarci, ma noi non potevamo toccare. Ricordo che una volta rubai una caramellino di zucchero e la nascosi sotto al mio cuscino, la notte con la paura che mi scoprisse la misi in bocca e iniziai a succhiare quella dolcezza talmente avida che mi andò di traverso. Mi alzai impaurita e corsi nella sua camera in cerca di aiuto, mi sentivo soffocare ma lei mi cacciò via in malo modo ed io piansi tutte le mie lacrime disperata. Sarei potuta morire, tanto a lei non importava, pensai con rammarico. Una volta avevamo ospiti a pranzo e mentre apparecchiavo scheggiai un piatto, lei se ne accorse e con cattiveria me lo ruppe in testa davanti a tutti, ma il dolore fisico che provai era niente in confronto allo squarcio dell’ anima che si era creato. Come aveva potuto picchiarmi davanti a tutti? Corsi in camera mia, mi mancava l’ aria, mi mancava la terra sotto i piedi, mi sentivo così inutile e inadeguata come se fossi un peso per lei. Non mi voleva, non mi amava. Ma io ero sua figlia?

Mio padre era diverso anche se succube di mia madre, lui mi voleva bene era un buon uomo ed io avrei voluto stare sempre con lui lontana dalle sue grinfie. Ricordo un giorno tornando da lavoro mi portò in regalo un anellino d’ oro che aveva trovato, mi si illuminarono gli occhi per quel regalo inatteso ma mia madre con cattiveria me lo strappò di mano urlandomi “ questo è mio non lo devi più toccare”. Stetti zitta, delusa, con le lacrime soffocate in gola che mi strozzavano. Era un amore odio quello che provavo, una parte di me cercava il suo amore e avrei dato chissà cosa per un suo abbraccio, una sua carezza ma, dall’ altra la odiavo con tutte le mie forze, con tutta la rabbia che avevo in corpo per il male che mi stava facendo. Avrei voluto che soffrisse, che sentisse la mia mancanza ma l’ amore filiale non c’ era.

Ascoltavo con invidia le mie amiche quando parlavano della loro mamma e di quanto si sentissero amate e protette . Mi ero convinta che magari mi avessero scambiata alla nascita e fosse per quello che lei non sentiva il legame filiale. Sognavo che la mia vera madre un giorno scoperta la verità mi venisse a riprendere da quella famiglia che non era mia. Mi immaginavo un abbraccio che mi facesse mancare il fiato, così forte da stritolarmi eppure felice, finalmente amata come una figlia. Ma il tempo passava ed io crescevo in quella casa estranea e mi rinchiudevo in me stessa sempre più a riccio. I miei pensieri li tenevo ben nascosti nel profondo dell’ anima, mi guardavo allo specchio cercando un lineamento o un segno particolare che mi potesse assomigliare a lei, la scrutavo di continuo di nascosto ma niente, io mi vedevo così diversa da lei. No, non è lei la mia vera madre mi ripetevo in continuazione. Era una maniaca della pulizia, sempre a lucidare, tutto doveva essere perfetto e in ordine, neanche uno spillo fuori luogo. Il mio vestitino sempre lindo, dovevo stare attenta a non sporcarmi per non farla dispiacere. Mostrava a tutti con orgoglio la sua bella casa pulita e linda come se solo quello fosse di primaria importanza. Avrei voluto che lei capisse che c’ erano altri valori da coltivare e che le soddisfazioni della vita non si limitano ad avere una casa pulita e i figli sempre in ordine. Lei aveva una bella famiglia, un marito che la amava eppure quella fissa maniacale non le faceva godere i piaceri della vita. Quell’ odore di pulito mi faceva venire la nausea, mi faceva star male, pensavo che lei la vera sporcizia l’ avesse nell’ anima e che malgrado provasse a scrostarla lei non ci riuscisse. A volte mi alzavo la notte e rimanevo davanti alla sua porta incerta, avrei voluto aprirla e infilarmi nel suo letto piano piano senza che lei se ne accorgesse per sentire un po’ di calore, il suo calore il suo odore, ma poi ritornavo nella mia camere delusa per non aver osato. Guardavo mia sorella che dormiva beata nel letto e pensavo che forse lei si sentiva amata e invidiavo il suo sorriso nel sonno. Forse ero io che travisavo le cose, ma perché mi sentivo così poco amata. Stavo ore e ore a fissare il soffitto, il sonno tardava a venire, sentivo un gran freddo nell’ anima e malgrado mi coprissi non sentivo calore. Ero un’ estranea in casa mia, o forse ero una bambina cattiva e per questo motivo nessuno mi amava, neanche mia madre.

Tante volte mi sono chiesta se fosse solo colpa mia quel sentirsi sempre fuori dalle righe. Il rapporto con mia madre era pessimo, con mia sorella non ne parliamo, per ogni marachella lei incolpava me ed io me ne stavo zitta e subivo i rimproveri di mia madre . Ci sono cose o avvenimenti che ci segnano a vita e ci fanno essere le persone che siamo. Cicatrici che ci portiamo dentro, che a volte si rimarginano ma altre volte riaffiorano in superficie sanguinanti e scalzi ci inciampiamo. Perché noi siamo il nostro passato, quel passato che ci ha definito e forgiato, ed io mi sento un ramoscello fragile in balia del vento.

Ero adolescente, una ragazzina fragile e magrolina coi capelli lunghi a coprire le spalle. Mi guardavo allo specchio e mi sentivo come il brutto anatroccolo. Mia madre continuava a trattarmi con freddezza e a ripetermi che non ero buona a nulla, io non ero brava come mia sorella che brillava a scuola o come mio fratello che era il suo cocco, io ero inutile, non ero capace di fare qualcosa di buono, ero cattiva, e quasi mi ero convinta sempre di più che lei avesse ragione. E più passavano i giorni più sprofondavo nel buio. Fu allora che iniziai a frequentare “ cattive compagnie”, come lei le chiamava. In me nasceva forte la ribellione e iniziai a contraddirla per farle dispetto. Volevo che anche lei soffrisse, volevo che anche lei provasse quel senso di impotenza che mi stava schiacciando. Pensavo che quelle amicizie mi avrebbero fatta star bene, e più mia madre mi rimproverava e più io le disobbedivo con cattiveria. Iniziai a diradare la scuola, con gli amici stavamo mattinate intere nei vari locali della città a bere e fumare, come se avessi voluto affogare il mio malessere senza riuscirci. Mi sentivo come una barbona che mendicava amore, ma ovunque mi giravo il vuoto mi stringeva.

Mi sentivo sprofondare sempre di più in pozzo profondo, io cercavo in tutti i modi di risalire ma la mia vita non aveva senso, la mia vita era inutile. Se fossi morta nessuno avrebbe sentito la mia mancanza. Vedevo nero, tutto nero. Ma anche per morire ci vuole coraggio pensavo. Mi facevo del male, cercavo la morte come una liberazione e iniziai a prendere farmaci in dosi eccessive finché un giorno al rientro da una festa con i soliti amici ebbi un brutto incidente, due mie amiche morirono sul colpo, il ragazzo che guidava se la cavò con poco mentre io in cattive condizioni fui ricoverata in rianimazione, coma dissero e poi frattura scomposta al bacino, frattura all’ anca, contusione alla testa e una brutta lesione al polmone. Rimasi 20 giorni in coma tra la vita e la morte, non so neanche io perché mi risvegliai. Le mie amiche erano morte, loro che avevano tanta voglia di vivere. Ricordo mia madre, un giorno venne a trovarmi, pensavo che vedendomi così malmessa magari mi avrebbe dato un po’ d’ affetto, invece le sue parole taglienti come lame mi trapassarono la carne di parte in parte:

-“ forse era meglio se morivi anche tu”

-Sì dissi io, sarebbe stato meglio. Io sono viva ma sono morta dentro, pensai.


Paola Pittalis 30/08/2017 17:42 1087

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
La riproduzione, anche parziale, senza l'autorizzazione dell'Autore è punita con le sanzioni previste dagli art. 171 e 171-ter della suddetta Legge.
I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.


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Nota dell'autore:
«Racconto premiato con una menzione d'onore al concorso internazionale "Filippo Maria Tripolone" 2017»

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