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Questo racconto è inserito in:
 Parte 26 della raccolta "Storie di Famiglia " di Carlo Fracassi (35 racconti)
 Come eravamo

Estate 1952

Biografie e Diari

Mio padre d’estate

Il babbo era ormai prossimo alla pensione ed alternava il lavoro della ferrovia con quello casalingo dell’attività estiva dedicata ai bagnanti. Il mattino si recava spesso in pescheria, dedicandosi poi alla cottura delle triglie, dei sardoni o di altro pesce azzurro alla griglia; la cosa gli riusciva molto bene e si prendeva tutti i complimenti degli ospiti che gradivano e chiedevano il bis.

Con la sua bicicletta da donna, un tempo di mia madre, caricava il largo manubrio di sporte ed anche una mezza stecca di ghiaccio che appoggiava fra il centro del manubrio e la parte inferiore del velocipede, vicino ai pedali.

Faceva pure il cantiniere e segnava sul muro del sottoscala le bottiglie consumate dai clienti, come fanno i carcerati per segnare i giorni, poi ci tirava una riga sopra a pagamento avvenuto.

La sera quando tutti uscivano era lui che aspettava il ritorno fino all’ultimo dei bagnanti, passando il tempo con le parole incrociate o facendo partite a carte e a dama con quei clienti che rientravano dopo una breve passeggiata. A quel tempo nei due giochi e soprattutto a dama era pressoché imbattibile. In tutta l’estate si sapeva di qualcuno che era riuscito a pareggiare qualche partita. Io non avevo ancora preso il via da casa e quando gli amici, Erto, Liliana, Luisella, Gianni, Betty ed altri, se n’erano andati, m’attardavo a vedere mio padre come giocava, guardavo e tacevo. Mentre giocava sentivo i discorsi dei suoi avversari che generalmente raccontavano di lavoro, dei figli, e dei rapporti difficili con i parenti; io ascoltavo attentamente le risposte che dava mio padre, sempre brevi, ponderate, risolutive. Non gli pesava che la moglie uscisse tutte le sere con le sorelle a divertirsi e non chiedeva mai di fare a turno per uscire a sua volta. Era felice se la sua donna lo era, il resto per lui contava poco o nulla!

La teglia miracolosa!

Erano tempi che di domenica fossero quasi d’obbligo le lasagne verdi unitamente al pollo arrosto con patatine fritte e il dolce fatto in casa. Le Pensioni, e tanto più le case private, erano sprovviste di forni adeguati, perciò le lasagne si portavano dal panettiere. Quella domenica, mia madre mandò al forno “Buccari” una teglia di circa 20 porzioni. A mezzogiorno mio padre – nel ritirarla – non si accorse che la commessa gliene aveva consegnata un’altra. Giunto a casa, mia madre notò che quel contenitore era molto più grande e che le lasagne avevano un aspetto poco invitante. In breve tempo fu rintracciata la Pensione con la quale era avvenuto lo scambio: la teglia era lì in cucina, ma di lasagne nemmeno l’ombra. Quel giorno mia madre servì doppia razione ai pensionanti ma questi lasciarono nel piatto quella che oggi si potrebbe definire una sorta di “mucillagine gastronomica”. Solo una corpulenta, vorace e loquace signora piemontese – soprannominata da mio padre “la scafa” – fece onore al pasto ed oltre a divorarsi quelle del marito ne chiese ancora delle altre!

Da quell’incidente mia madre trasse due grossi vantaggi. Infatti, la clientela, che già apprezzava le sue doti culinarie, le confermò la propria fiducia e la teglia più grande fu trattenuta a titolo risarcimento danni, senza che la controparte osasse protestare. Solo la signora piemontese riportò conseguenze spiacevoli perché fece un’indigestione da overdose di lasagne e in più dovette sopportare le invettive del marito, il quale, ogni volta che s’avvicinava al letto della moglie dolorante, borbottava: “Pitost ch’avansa s-ciupa la pansa!”.

Noi tutti, ospiti compresi, ci preoccupavamo della salute della signora e chiedevamo continuamente notizie. Per tutta risposta il marito, con un sorrisetto sardonico, ripeteva, allargando le braccia: “Pitost ch’avansa s-ciupa la pansa!”.

Mi accorsi che non la finiva più di ripetere quella cantilena che riecheggiava dalla loro stanza, poi anche il giorno seguente, a chi lo incontrava e chiedeva, la ripeteva per due o tre volte. Quando incuriosito cominciai a tenerne il conto, arrivai a contare fino a 44. E sì che quell’uomo era un tipo molto taciturno… allora capii che aveva, finalmente, trovato il suo argomento di conversazione con l’appiglio a quella frase. Da quel giorno fu sempre loquace, mentre la signora divenne silenziosa e, soprattutto, prudente a tavola. Quando l’anno dopo tornarono, un giorno all’uomo dissi a bruciapelo: “Pitost ch’avansa?” e lui pronto: “S-ciupa la pansa!”.



Carlo Fracassi 05/02/2011 18:49 1249

Creative Commons LicenseQuesto racconto è pubblicata sotto una Licenza Creative Commons: è possibile riprodurla, distribuirla, rappresentarla o recitarla in pubblico, a condizione che non venga modificata od in alcun modo alterata, che venga sempre data l'attribuzione all'autore/autrice, e che non vi sia alcuno scopo commerciale.
I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.


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Nota dell'autore:
«Tratto da "Storie di Famiglia" di recente pubblicazione.»

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