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I mulini di "Agnieroll"

Fantasy

Furono edificati due mulini nel vallone, sul greto del torrente, al fine di sfruttarne la portata ch’ era allora davvero rilevante, (ancora lo ricordo sciabordare).

Sarebbe stata l’energia dell’acqua a far muovere le macine di pietra scolpite con maestria e messe in opera per frantumare i grani di frumento.

Il Lama, questo è il nome del torrente, all’ epoca veniva alimentato da un numero cospicuo di rigagnoli che v’affluivano calanti dalle sorgenti naturali di cui il posto era ricco.

Per lungo tempo i contadini usarono la pregiata sostanza da irrorare sui loro appezzamenti, provvedevano a costruire scarni sbarramenti, giammai esagerati, ma soltanto sufficienti a tener l’indispensabile…quanto bastava per le loro piccole necessità, ri-convogliando poi quel prezioso elemento nel canale a che appagasse anche gli altrui bisogni.

Una risorsa, l’acqua, necessaria per dar rigoglio ai loro brulli campi, difatti quella zona era piuttosto densa di tomoli voltati ad orti, e ancora mi ricordo quando pargolo accompagnavo la mia zia laggiù, al suo magnifico orto.

Ricordo il ribollire di quell’acqua che sgorgava copiosa alla sorgente dove con bramosia mi dissetavo.

Gli adulti divoravano con gusto, di tanto in tanto, qualche pomodoro rubato a generose piante senza troppo eccedere nel pulir l’ortaggio… (non c’era alcun motivo poi per farlo).

Ne offrivano qualcuno anche a me, ma lo rifiutavo non essendo il gusto a me troppo gradito.

I catini, creati con minuti sbarramenti, eran posti in successione lungo il corso di rivoli curati da accorte mani contadine che s’adoperavano per non disperdere il fluido nei terreni circostanti.

Ogni ruscello dava il suo tributo a ingrossare il torrente.

Oggi non son visibili i canali e l’abbandono delle molte terre ha contribuito a far si che quell’acque vadano a sperdersi minando la stabilità geologica del posto.

Forse l’effetto più tangibile è l’attuale pressoché perenne secca di quel torrente.

Era un certo Pasquale il proprietario dei mulini (Marino il suo cognome) un uomo secco e totalmente cieco per via d’un incidente sul lavoro occorsogli qualche tempo prima in U.S.A..

Una esplosione dentro la miniera non gli costò la pelle ma la vista.

Marianna, invece, il nome di sua moglie; parzialmente disabile la povera (non vedeva da un occhio).

Sobrio, l’abbigliamento dell’ometto, non era quel che adesso si potrebbe immaginare in relazione al suo mestiere, ma all’incirca quello standard degli umili mezzadri di Fraìne i quali, all’epoca, parevan tutti impegnati a far guerra a cespugli e rovi che insidiavano i loro arditi passi ed al pungente freddo, senza dir di quelle ascose serpi velenose ben nascoste in pietrame ed altri anfratti.

Il buon Pasquale aveva più degli altri la consapevolezza di doversi proteggere giacché privo di vista.

Gli fasciavano i piedi i calzettoni di lana; si trattava d’una lana grezza scardata che acquistava in fiera e che sua moglie provvedeva poi a intrecciare abilmente con i suoi ferri.

Gli scarponi erano robusti ed alti, tomaia in pelle di vitello giovane, il battistrada di cuoiame spesso; sulla punta poi e sul tacco, due piastrine d’acciaio simili, in forma, a quarti di luna - gli spigoli smussati - piccoli boomerang per ben intenderci, posti ad evitar l’usura delle suole.

Sotto la rimanente superficie, il fiosso escluso, c’erano appuntati chiodi (“centrolle” il termine in dialetto) a testa larga e che, a guardarli bene, sembravano più borchie (come quelle usate da taluni tappezzieri per bordare divani e le poltrone).

Eran così le scarpe del mugnaio… d’altronde come tutte quelle degli uomini delle terre di Fraine.

Nell’andare il rumore provocato dai buon calzari, che sullo sterrato sembrava nullo, quando sul selciato diveniva assordante ed all’incirca al tramonto nel paese si sentiva un incredibile frastuono reso ancor più intenso dall’andare d’asini e cavalli, “ferrati” anch’ essi come i padroni che assieme dirigevano, a passo svelto, verso i propri alloggi; qualcuno, non a caso, definiva “carro armato”, quel genere di scarpa.

Mutandoni di lana ed i calzoni, assieme e sovrapposti, costituivano invalicabile barriera per il freddo e per le gelide sferzate della bora che in certi periodi dell’anno non dava davvero tregua.

Il busto imprigionato in un maglione, manica lunga, stessa lana e stesso intreccio di mutande e calzettoni, e sopra una camicia bianca a collo basso, quasi direi senza colletto.

Ed infine un gilè con su la giacca che il povero appendeva a un punteruolo piantato tra due sassi delle mura, del suo mulino in tarda mattinata sgravandosi di fatto.

A proteggergli il cranio, quasi calvo, a dire il vero il suo aspetto era più "francescano" che d'un vecchio mugnaio, una coppola a quadri, il cui colore si distingueva solamente quando la scrollava per bene eliminando lo spesso strato di farina; pure quella di lana e posta ad “ ore dieci” visiera sempre un po’ spostata a destra.

Col caldo estivo poche le varianti. Ai mutandoni preferiva un “intimo” di cotone un po’ meno attanagliante acquistato a Belmonte.

La sua maglia di lana differiva da quella dell’inverno, per le maniche assenti; il tutto consentiva di dar tregua a braccia, a cosce ed altre parti intime normalmente sofferenti, a causa del prurito insopportabile provocato dal vello sulla pelle.

Era così costante il pizzicare da essere confuso con punture di pulci, cimici e pidocchi.

A dire il vero un poco di sollievo gli veniva da quel bianco pulviscolo che, diffondendosi nell’aria astante, si introduceva dappertutto e che, tenace, trapassava le sue austere barriere di tessuto molto più del vento frapponendosi tra pelle e lana in strati sottili; riducendo l’attrito ritrovava un po’ di pace.

Ma stava ben attento a calibrare i suoi sforzi poiché sapeva bene che l’eccesso gli avrebbe procurato sudorazione e amalgamando il tutto sarebbe stato un po’ più ardito muoversi.

Era difficile la vita allora senza poter contare su altre forze ma gli servì per aguzzare ingegno.

Con i mulini s’era assicurata una buona esistenza e non sentiva la disabilità.

Ed anche l’autostima era cresciuta, tanto che tra i clienti un po’ furbetti, s’atteggiava con aria sufficiente origliando con massima attenzione per captarne malvagi loro intenti.

Il mulino di sopra era attrezzato per la macinatura del frumento mentre l’altro per quella del granturco.

Pasquale, avendo la necessità di spostarsi tra entrambi i fabbricati, s’era inventato un pratico sistema che consentiva agevolmente di superare il suo handicap. Aveva collegato con del filo di ferro le due strutture ed era così in grado di spostarsi dall’una all’altra usando due robusti bastoni, il primo per rilevare nel lungo suo tragitto gli ostacoli e quell’altro lo agganciava sul filo con il manico a dirigersi.

Il problema più grosso del mugnaio era pesare i sacchi di frumento e la farina da dare ai clienti.

Non aveva aiutanti, perché forse non poteva permetterseli o, molto probabilmente per la malfidenza comprensibile che manifestava in modo singolare all’atto della “pesa” dei suoi prodotti.

Egli, sistematicamente, proprio a causa di quell'handicap pesante, metteva in atto alcune strategie a evitare che i furbi la facessero franca quando, credendo di poterlo ingannare, imbrogliavano aumentando gli etti delle granaglie.

Per la sua cecità aveva affinato il tatto, (accade se si perde un senso).

Maniacale, infallibile, con metodo determinava il peso dei prodotti tenendo un certo spazio tra stadera e i suoi clienti e non smetteva mai di interloquire con loro allorquando affaccendato in tali operazioni; in tal modo poteva essere certo che ci fosse distanza sufficiente a scongiurare loro furberie.

Solo allora, accertata la distanza, con l’unghia del suo pollice contava le tacche sulla barra consumata della stadera e ci azzeccava sempre.

Tutti riconoscevano la sua bravura e mai nessuno lamentava furti o perfidi espedienti.

La preoccupazione del mugnaio restava quella che molti potessero agire in gran silenzio, solamente per questo ne esigeva la distanza.

Tenendoli alle spalle poi, muoveva gli arti inferiori con gran frenesia a intercettare gli arnesi eventualmente usati per la frodarlo (rami o legni).

Fu l’astuzia a permettergli di vivere agiatamente nonostante quella grave manchevolezza.

Sembrava scritto per Lui tal proverbio “ è la necessità che aguzza ingegno”

Nel suo mulino c’era una campana ch’egli suonava più volte in un giorno al “ Mattutino”, a “ Mezzogiorno”, all’ “Ave” senza dimenticare il “ Ventunore”.

Non si è mai ben capito in quale modo

potesse, data la sua cecità,

desumere dal sole quale fosse

l’ora... ma forse replicava solo

il suono della torre campanaria.

I maligni affermavano che l’atto

di suonar la campana fosse l’unica

azione generosa di cui fosse

capace data la sua avarizia,

dopodiché piombava ancora nella

spinosa tirchieria… ma si sa,

di malelingue ce ne sono tante.

Era invece felice di donare

qualcosa a chi sgobbava in mezzo i campi.

Aveva qualche volta vagheggiato

immaginando d’ esser campanaro;

quel desiderio di quand’ era infante

ancora forse gli strillava dentro.


Duilio Martino 31/12/2012 08:38 1989

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
La riproduzione, anche parziale, senza l'autorizzazione dell'Autore è punita con le sanzioni previste dagli art. 171 e 171-ter della suddetta Legge.
I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.


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Nota dell'autore:
«Fantasticando e ricamando su ...storie vere...
Sono tutti endecasillabi, a parte qualche verso a fine periodo.
Nomi inventati!
Immagine - AL VECCHIO MULINO di THOMAS KINKADE
»

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