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La Violinista

Amore

Allorquando nel soave certame per il riconoscimento dell’Amore incontestabili pregiudizi e folli saette d’orgoglio giungono a colpire tanto il core della fanciulla ritrosa quanto lo spirto dell’insistente cavaliere, il proprio soggetto… sì, il proprio desiro, o ancor più la propria volontà sembra inabissarsi nell’incapacità di saper vivere e amare distinguendo con dovizie gli istanti drammatici dall’Eternità immensa. Il sospetto inchioda così il dubitante a un tempo oramai trascorso ove forse più non cale indagare sulla verità e chiedere dalle labbra altrui un’ombra pallida di muta verosimiglianza. L’istante dei dì che furono diventano i momenti stessi delle presenti ore, le quali scorrono fuggevoli come sempre verso ciò che sarà nuovo nel tempo ma nella concretezza della nostra vita tanto simile a ciò che già fu. Celere fugge un minuto; e in quel minuto l’acqua che si assapora par essere veleno, sìccome del resto la saliva medesima apprende dal fiele dell’orgoglio offeso e ingiuriato l’essenza amara che tanto la rende insopportabile. In un breve secondo il ciglio pentito del carnefice si perde nell’inappagato desiro di consumare le lagrime mondatrici dell’onta inesorabile che esso in precedenza impose senza pietà alcuna ai sentimenti di chi tanto volle amare al di là delle preferenze, della cultura e dei pregiudizi della Fede. Infamia!.... Questi momenti che si va descrivendo sembrano apparentemente essere dinamici come una bufera di neve nel core della steppa invasa dall’inverno, ma in realtà sono soltanto ammassi di statiche sensazioni senza termine che alla fine si risolvono appunto nel non poter e non voler far nulla per cangiare in meglio, fors’anche per redimere, la sventura d’un Amore rifiutato che si rifiuta attraverso un atto tanto passivo quanto attivo. Non si vive più: si brancola nelle tenebre delle membranze, evocando con urla e gemiti l’onore deriso, oppure il diniego incriminato che si rimpiange con ansia senza mostrare una goccia di pianto. È in questo baccanale di meste sensazioni e d’amarezze atroci che giunge inesorabile il manto oscuro del Destino. Esso, proclamandosi mendace spada d’Iddio, porta nel mondo dei mortali gli interessi dell’Inferno che ora è Natura, ora misterico Nulla; e va premiando e condannando senza mostrare interesse alcuno pe’i meriti o pell’onerosa colpa de’ peccati. Accade allora che mentre la vita sembra non essere più nelle aspettative di entrambi gli amanti… degli innamorati angosciati de’ quali l’uno fu vittima l’altro carnefice, un di loro riceve il tocco fortunoso e leggero di un impeto di vivere che gli arride presentandogli fors’anche un novello ardore cui questa volta non si deve né si può rinunziare. La beltà dell’aspetto, la possanza delle membra, la temperanza dell’indole, le credenze e i gusti non hanno più voce nella libera scelta, poiché oramai in quest’ultima dominano la disperazione che volge a ciò che fu e il timore di ripetere l’errore trascorso. Guai se in questo tristo darsi del caso mediante la cieca forza del Fato l’altro innamorato, forse quegli che venne offeso e allontanato, dovesse intendere che il fiore per il quale ancora si lamenta ha accettato di farsi baciare dal tepido Sole! Avrebbe in sorte duoli inimmaginabili nell’impeto della sua alma e ne’ recessi del suo sciagurato core. Così trascorrerebbe mesi e mesi di tormento e di pianto incapace di esprimersi; e gli resterebbe il conforto o della Fede o della Poesia, laddove si può sempre fuggire nel sublime e superno Ideale. Ma a quale cosa serve la dimensione eterna delle Idee che pur esiste, se queste Idee sono così lontane dalla concretezza che non solo sembrano impossibili da imporre ma non si sono neanche imposte – e testimonio di ciò sta sempre la realtà più meschina -?.... Serve forse a rimembrare che allorquando si potea ancora pugnare non si pugnò abbastanza, anzi si condusse una schiera già troppo arrendevole? Oppure serve a fortificare tanto la sua natura istessa quanto l’animo degli uomini attraverso il travaglio nella propria negazione… nella negazione d’Iddio, dell’Amore e nell’affermazione d’una Libertà troppo estrema che non fa scegliere altro al di fuori di se istessa?.... Trascorse molte ore, fuggiti molti giorni e altrettanti mesi si dovrebbe avere una risposta a siffatto quesito. Ahi lasso, siffatto responso tanto atteso non giunge mai a rischiarare il meditante, sicché alla fine sembra che nelle questioni umane d’Amor non corrisposto non vi sia alcun superamento dell’essenza del Male. In realtà pare che non vi sia nemmanco un’immersione infame nel crudele Oceano dell’empietà, giacchè se così fosse, allora si avrebbe prima o poi un rischiaramento… un’alba poscia la notte. Pazienza! Ahi, a nulla vale essere pazienti!.... Amare senza essere corrisposti è una drammaticità divina che recorda che anche Iddio ama l’Umanità la quale per l’appunto giammai risponde al suo appello d’Amore… al dovere di amare imposto liberamente da siffatto Amore. È dunque una pena senza fine vedersi fuggire da intorno l’imago che tanto si ama, se nemmanco il Signore in grazie del libero arbitrio da Lui imposto può giungere a farsi amare dagli uomini!

Ahimè! Quello che ora sono andato descrivendo è un processo oscuro che ben conosco a mio danno e svantaggio. Se dovessi seguire l’istinto del core non fermerei la penna su queste vane parole, e al lume di queste tre candele che ho dinanzi proseguirei volentieri la descrizione dell’infamia più immensa che può subire un essere umano. No! Non seguirò quest’istinto. Se dovessi seguirlo, infatti, scriverei all’occhio dell’uomo ciò che è già conosciuto, e per questo semplice, banale… fors’anche poco originale; oppure m’inabisserei nella speculazione filosofica che da buon cittadino russo preferisco inserirla ascostamente tra i capoversi delle mie novelle, o ne’ versi delle mie poesie. Perché scrivo dunque? A me non è mai piaciuto conservare que’ diari sui quali si scrivono le proprie sventure e che alla fine si debbono gelosamente conservare per leggerli in età più avanzata pria di andare a letto. Eppure scrivo a mò di diario. Perché? Ebbene, lo dirò brevemente senza annoiare nessuno. Lo scorso meriggio sono andato nuovamente a Pietroburgo per le faccende editoriali di sempre e per mantenere viva la memoria dolente sulla mia terribile sciagura amorosa. Pria che facessi ritorno a questo scarno villaggio di contadini e di vecchi tavernieri, ho incontrato il principe Slavowsky, un uomo rinomato nell’alta aristocrazia della Patria nonché amico fedele e confidente dello czar istesso. Complimentandosi con me per le mie poesie tragiche pubblicate recentemente lì, a Pietroburgo, e parlando per una buona ora di letteratura, costui mi ha confessato che alcuni miei lettori hanno il desiro di leggere qualche mia opra scritta in prosa. Ciò mi è piaciuto molto. Del resto non si deve comporre sempre in versi; a volte si deve cangiare metodo, fors’anche stile. Così ho promesso al principe di impegnarmi per presentare al pubblico nobile e borghese di Pietroburgo e di Mosca qualcosa in prosa, forse un racconto… forse una novella, oppure un romanzo. Tuttavia tornato alla mia dimora, mi è immantinente preso il timore di non essere all’altezza, in quanto tranne due tragedie non ancora dichiarate a qualche buon e onesto editore, non ho mai scritto in prosa. Ho trascorso – almeno credo – una notte insonne pensando qualche buon soggetto per un racconto, e giungendo perfino a farmi un’idea della trama per un bel romanzo. Non ho deciso nulla. Del resto le mie idee primitive non vanno molto d’accordo con lo spirito della letteratura russa e del suo pubblico, laddove oramai si è troppo abituati ed estasiati dai profondi e tragici romanzi di Dostoevskij e di Tolstoj. Ebbene, v’è qualcosa in me… nella mia mente letteraria e poetica che può andare di pari passo con gli ultimi capolavori letterari della nostra Patria?.... Poscia aver meditato molte ore su ciò, ho osservato che la mia infelice sventura d’Amore è perfetta per un pubblico raffinato che sa riflettere sulle sciagure dell’essere umano, sul Male, e sulla nostra destinazione ultima. Così ho deciso di offrire ai miei cari lettori una geniale novella che illustra un breve ma intenso istante della mia vita istessa…. Insomma, ho creduto necessario scrivere un’ispecie di autobiografia, laddove in questi capoversi è tutto verace… tutto tragico e drammatico senza l’ombra pallida dell’impavida finzione. Leggerete presto non un’istoria maravigliosa, ma una stupenda armonia drammatica di stati d’animo che più de’ personaggi ha qui la veritiera priorità sulla vicenda, fors’anche sull’Universo intiero. Ma – vi prego – non deridete le mie sventure, né ischernite la fanciulla ritrosa della quale vi discorrerò tra dolce membranza e infame amarezza poiché è mio iscopo lagrimare con voi, lei compresa, sur d’una sciagura più alta e grave: quella del genere umano che tanto sommo si crede allorquando è un ammasso di vermi e d’altre larve striscianti che mangiano la polve.

Era un crepuscolo d’inverno. Nonostante in fin de’ conti si trattasse soltanto del tardo meriggio, il manto del cielo era già oscuro e preannunziava come sempre la monotona notte invernale in cui v’è così tanto gelo che è quasi impossibile dormire. Vestito con un elegante completo borghese e coperto con un cappotto ben pesante e caldo, mi trovavo come al solito a Pietroburgo, l’unica città che in queste lande che s’approcciano al mar norreno offre comodità, agi, sollazzi e cultura. Tornavo dal mio editore di fiducia col quale ebbi il primo colloquio sulle mie opre poetiche – ai tempi, infatti, non lo conoscevo così bene come adesso, né del resto avevo da vantare alcune pubblicazioni editoriali -. Giacchè mi ero accordato con la marchesina Mariya Elizaveta Evgeniya Trubceskoma della contrada di Veryngrad (ammetto che per prudenza, ovvero per non mancare implicitamente di rispetto a qualcheduno, mi è parso giusto attribuire alla nobil dama un nome più inventato che reale) di farmi trovare ne’ pressi del Palazzo Imperiale affinchè avessi potuto salire sulla sua comoda carrozza e tornare facilmente al mio povero villaggio – che sarà lontano circa una trentina di miglia e che si trova sull’istesso sentiero che conduce al suo -, m’incamminai immantinente verso il luogo dell’appuntamento. Era oramai da molto tempo che conoscevo questa fanciulla, anche se in realtà il primiero incontro con lei avvenne più per caso che per reciproco desiro di stringere amicizia. Tre anni pria, infatti, quando mi volli immergere nella vita nobile e borghese di Pietroburgo mi ero perso per le strade, per i viali e per le strette vie; e nonostante avessi in riferimento le guglie della cattedrale e i tetti marmorei e dorati dei palazzi, non riuscivo a trovare un modo per rimettermi sul sentiero giusto, quello che poscia una giornata in città mi avrebbe riportato in campagna… quello all’inizio del quale un mio amico di umili origini mi attendeva con un impavido destriero. Per mia fortuna incontrai Evgeniya che, sebbene fosse un’importante nobil dama il cui cugino materno si stava per sposare con una principessa discendente dalla famiglia medesma dello czar, non m’ischernì, né mi derise; anzi palesò una gentile curiosità ne’ miei confronti, nonché un delizioso fervore nell’aitarmi.

«Avete qualche problema? Qualche periglio vi sovrasta, signore?» mi disse poscia avermi visto camminare frettolosamente in modo smarrito per le vie della città.

«No…. Niente di che» risposi timidamente arrossando lievemente sul volto; e in seguito a un breve istante di silenzio mi feci coraggio e le dissi «In realtà mi sono perso. È la prima volta che da quando mi sono trasferito nel villaggio di Ödyngrad mi ritrovo qui, a Pietroburgo. Per questo sto cercando con ansia la direzione giusta che volge alla mia dimora. Un mio amico peraltro mi attende in periferia con un cavallo. Non vorrei tardare e farlo attendere troppo».

«Dunque abitate in campagna» fu il primiero accento che ella mi sclamò poscia aver ascoltato il mio problema. Tuttavia non v’era sdegno alcuno in queste parole, tant’è vero che immediatamente ammise che anche la sua nobile stirpe abitava in mezzo alle fredde contrade di quella parte baltica della Patria.

«Il vostro villaggio mi è familiare. È parte del retaggio feudale del mio casato. Non è dunque per me difficile indicarvi quale via dovrete prendere per tornare al vostro tetto». Così detto, Evgeniya mi indicò con dovizie tutte le strade e tutti i viali che avrei dovuto percorrere per rimettermi nella direzione di Ödyngrad, e una volta che si dimise da me con un inchino ben ricangiato, si augurò di rivedermi presto. Avvenne dunque che spesso la incontravo, anche per semplice giuoco del caso, ogni qual volta andavo a Pietroburgo. Oramai l’Amicizia tra noi due prendeva il sopravvento; e in me, segretamente, già si facea udire la voce d’un desiro amoroso, d’una dolce speranza. Ma si lascino perdere queste membranze del tempo beato che fu. A nulla mi giova recordare come nacque in me una mendace speme senza pietà, e come ebbe principio il tormento del mio gemente core. Eppure, infame sorte, è d’uopo che abbandonando questi recordi io debba rimembrare la sciagura che mi colpì, poiché questo è ciò che ho promesso ai miei cari lettori.

Oramai è chiaro che al tempo ero un sincero e fedele amico della marchesina che quel tardo meriggio tanto aspettavo con ansia all’ombra del Palazzo Imperiale desioso di tornare al mio tetto e di sapere da lei il giudizio che il maestro Tschaikowsky dovette esprimere sulla sua perizia di sònare il violino. Infatti a presto si sarebbero svolte le prove pell’Evgen Onegin, e il celebre compositore era arrivato appunto da Mosca per analizzare i talenti segnalati dai suoi nobili amici. Evgeniya – e questo lo so, giacchè una volta in carrozza, mentre mi accompagnava in città, prese in mano il suo adorato istrumento e sònò alla perfezione alcune melodie della nostra cara Russia e pure alcuni Capricci di Paganini – amava sònare il violino; e lo sònava con magistrale e drammatica perizia tanto che anelava di essere una delle poche dame a far parte di una grande orchestra, in particolar modo quella dell’Opera. Anni addietro aveva già conosciuto Tschaikowsky che, al di là de’ difetti coniugali e dell’indole sempre indecisa, le parve un musicista di classe, nonché un uomo gentile e cordiale. In altre occasioni più recenti ella poté anche leggere le bozze del libretto per il melodramma tratto da Puŝkin, e osservare una rozza e provvisoria partitura musicale. Quanto le sarebbe piaciuto sònare nella tempestosa armonia di altri violini l’accompagnamento per la tragica scena della lettera, sì, di quella lettera destinata a non essere presa nemmanco in considerazione!.... Ahimè, il Cielo non l’ascoltò!.... Il suo sogno si rivelò vano, frattanto che il mio desiro iscoppiava tempestoso nell’ignoranza di ciò che sarebbe poi accaduto.

Recordo che una volta giunto ne’ pressi del Palazzo la attesi per poco, esultando in segreto per l’incoronamento che davo per scontato di quello che appunto era un suo grande sogno. Quando invece la vidi uscire da una porta della maestosa reggia, la mia gioia divenne angoscia… quest’angoscia divenne ignota melanconia. Evgeniya, infatti, stava lagrimando molto delusa; e con portamento atterrito e dimesso procedea a stenti verso di me.

«Andiamocene…. Oggi non ho più niente da fare qui» mi disse con voce singhiozzante, delusa e pure disonorata poscia avermi fatto segno di seguirla fino alla carrozza laddove due uomini in livrea ci attendevano pronti a guidare i cavalli i quali per ora se ne stavano tranquilli al caldo, protetti dal freddo da provvisorie coperte che appena giungemmo fûr tolte senza pietà alcuna.

Recordo che salimmo sulla carrozza e che attendemmo in silenzio la partenza fissandoci i volti con sguardi tinti di mistero, di curiosità e di muta tenerezza che sembravano domandare, rispondere, discorrere e consolare. Volevo sapere perché ella stesse piangendo lamentando il fallimento del suo sogno, e con esso quello della sua vita; ma non avevo coraggio di domandarglielo, non perché in fin de’ conti non erano affari miei, bensì perché avevo timore di offenderla e di farla stare più male di quanto già stesse soffrendo. Eppure qualcosa dovevo pur dirle, anche per consolarla da quello che per lei sembrava una sciagura. Ma cosa potevo pronunziare dinanzi a una giovine dama che lagrimava recordando al mio core una certa soggezione, una ben definita tenerezza davanti al pianto d’una creatura femminina… d’un’angiola che tanto rimembra il Cielo perduto e la perduta infanzia?.... Fu questo forse il primiero errore che segnò la mia sventura. Non a caso l’ho rimpianto a lungo, senza però poter far nulla per cangiare in meglio ciò che fu, fors’anche perché il mio silenzio fu effettivamente la soluzione giusta. Eppure da buon romantico so di confondere tuttora la giustezza o la negatività d’un’azione colla sua necessità o colla sua contingenza. Se io avessi voluto effettivamente consolare Evgeniya dal suo duolo, se io al tempo l’avessi amata realmente secondo i principi dell’Amore cui credo, non sarei stato in silenzio né avrei aspettato che mi dicesse ella medesma la cagione delle sue lagrime; anzi, potendo immaginare quello che le accadde, ovvero che il maestro Tschaikowsky non la ritenne una buona acquisizione pella propria orchestra – cosa che del resto era palese – avrei potuto o distogliere la sua mente dall’evento donde sorgeva continuamente il pianto, o consigliarle altri modi per affermare la sua perizia di violinista. Quanti altri compositori, al di là di Tschaikowsky, potevano interessarsi di questa virtuosa del violino che in tenera età si innamorò della musica allorquando a Pietroburgo assisté colla sua famiglia alla prima de’ La Forza del Destino, esperienza deliziosa che al di là della drammaticità della vicenda – forse troppo intensa per un’infante – le dischiuse una grande sensibilità musicale. Credo che se avesse sònato la melodia della Vergine degli Angioli dinanzi alla corte imperiale che frequentava spesso, lo czar istesso avrebbe fatto cangiar idea e impressione a Tschaikowsky. Ahimè, non dissi nulla… non feci nulla. Aspettai appunto che mi dicesse tutto lei; e allorquando mi chiese com’era andata sul mio fronte coll’editore peraltro consigliato in precedenza da lei, ebbi forse la stoltezza di asserire la verità, ovvero che era andato tutto a maraviglia e che presto avrei pubblicato il mio primiero libello di poesie.

«Sono contenta per voi. Almeno a voi gli affari si sono svolti alla perfezione» disse ansimando e gemendo, con voce tanto mesta quanto delusa e gelida.

«Non è vero!.... Questa giornata non è stata molto piacevole nemmanco per me!» ribattei stoltamente coll’ascosta intenzione di dirle che poiché ella avea subito una delusione, che poiché ella piangeva, io non potevo essere così contento e felice come avrei dovuto essere. Avrei benissimo potuto dire «Eppure non mi sento gaudio poiché voi vi tormentate su una questione che tanto avevate a core». Lo volevo… lo desiavo dire. Ma non l’ho detto; anzi, dissi quelle parole troppo vaghe alle quali ella mi rispose «Come fate a non essere contento? Come potete dire questo? A voi, però, i sogni si sono avverati». All’istante compresi che in queste sue frasi v’era un’ispecie di rimbrotto e di insolito fastidio, sicché alla fine dovetti dire che tanto mi dispiaceva ciò che avevo detto. Il viaggio verso il mio villaggio dovea spendere come al solito molto tempo. Per tutto questo viaggiare il suo pianto sgorgò peregrino dal suo ciglio senza che io abbia fatto in modo di placarlo; anzi, da come mi sembrò già allora, dissi tante parole senza pria meditare su di esse. Perciò credo che se fossi rimasto in silenzio non avrei aperto ulteriori ferite nell’orgoglio e ne’ sogni della fanciulla. Ma non potevo rimanere silente. Come potevo? Era impossibile. Più d’una volta mi è parso quindi il dubbio assillante che in quella mesta occasione avrei dovuto esprimermi in un altro modo, in un modo intendo diverso sia dal silenzio, sia dal discorrere inopportunamente senza badar all’onere delle parole. Insomma, spesso penso che avrei dovuto cercare di tranquillizzare Evgeniya con un abbraccio paterno, solidale… con una dolce espressione concreta di affetto, fors’anche di compassione. Non mi costava nulla avvicinarmi maggiormente a lei, abbracciarla e invitarla a posare dolcemente il suo lagrimante volto alla mia spalla, forse al mio petto. Con ogni probabilità ella avrebbe gradito più questa manifestazione di solidarietà che quelle parole che denunziavano imbarazzo, insicurezza, e tristezza. Sarebbe forse cangiata la mia intera vita, il mio senso sentimentale che ora geme parlando dal profondo degli sciagurati recessi del core. Infatti una dama, o in modo più generico l’intero genere umano, nell’esprimere giudizi d’Amicizia e d’Amore verso un individuo si recorda bene degli istanti di travaglio mondati e resi per fortuna vani da un’efficace azione di tenerezza e di compassione. La mente degli uomini giusti e retti sa per l’appunto riconoscere l’impegno offerto da altri nella pugna atroce contra il duolo e contra la delusione, sicché può accadere che si vedano accettati come amici, spesso anche come amanti, quegli individui istessi che fino al giorno precedente erano considerati mentecatti, ignoranti e idioti. La giusta intraprendenza delle gesta è cosa che lice all’Umanità che si aspetta sempre più eroi che semplici uomini comuni, in quanto soltanto l’eroicità riflette nell’altro quella possa che essa va ricercando in se medesma. Purtroppo in quell’occasione fui troppo uomo, e poco eroe, sicché invece di offrire sicurezza offersi una maggiore incertezza, e un sempre più possente pianto.

Fu allora timidezza? Fu timore?.... Onestamente non so ancora rispondere a queste domande che mi pongo meditando sulle mie sventure amorose, in quanto effettivamente ero timido già nel volere esprimere il mio affetto per la fanciulla, affetto questo che probabilmente avrebbe dichiarato il mio Amore per lei in un istante di sua debolezza; e mentre venivo invaso da questo rossore della timida tinta, avevo in ogni caso timore di palesare qualcosa di inopportuno, fors’anche di vedermi istantaneamente allontanato da ciò che potea essere avventatezza incontrollata. Eppure so per certo che se avessi applicato la mia solidarietà in modo più sicuro, più certo e più esplicito ella avrebbe apprezzato e con ogni probabilità avrebbe poi accettato di buon grado l’Amore che per lei già sentivo. Ma mostrare compassione per farsi amare è un’azione morale? No, per Iddio!.... Del resto io non volevo compatire bonariamente Evgeniya affinchè ella mi avesse potuto amare. Sarebbe stato meschino. Io la volevo tranquillizzare, la volevo liberare dal pianto e dal tormento perché mi sembrava mio desiro tanto supremo quanto superno di allora cercare di farle cessare le lagrime copiose che scendevano dai suoi occhi acquitrini a bagnarle le guance segnate dal dolore e il bel volto singhiozzante. In realtà spesso mi sono chiesto se forse non l’abbia poi voluta amare a qualsivoglia prezzo per cercare di donarle coll’Amore quella felicità che secondo il mio istinto, secondo il mio core aveva perduto in quell’occasione. Del resto da tempo Evgeniya mi sembrava essere penetrata in una crisi spirituale in cui iniziò a dubitare di tutto, o quasi, pure d’Iddio – ed ella per molti anni fu una devota credente che si prestava anche a insegnare alcuni precetti del nostro Cristianesimo ai nobili pargoli di famiglie locali -. Il giudizio inesorabile del maestro Tschaikowsky, per così dire, fu soltanto una delle fasi ulteriori di quel processo che le stava togliendo la felicità, la sicurezza, la spiritualità e perciò la Vita istessa. Confesso al Cielo e all’Umanità che questa impressione ben fondata causò un ansante e assillante interesse nel mio core per lei in quanto anni fa anch’io dovetti affrontare un momento in cui, uscendo dall’infanzia, iniziai a porre in dubbio molte di quelle che pria erano certezze, come del resto lo sono tuttora. Sentire troppo lontano e tanto inesistente lo Spirito divino, dubitare e sospettare delle proprie capacità e veder svaniti in modo tanto osceno quanto misterico i propri sogni… sì, questi processi che attribuivo un tempo a Evgeniya un dì li dovetti subire anch’io; e per colpa di questi dovetti fronteggiare l’istante peggiore della mia vita, istante che durò più d’un anno. Amare quella fanciulla, combattere pella rinascita della sua felicità e della sua vita perduta divennero spesso dolci doveri morali, missioni illuminate per il bene del vivere altrui, per non dire anche mistificazioni in ricerca del perdono divino de’ miei passati errori.

Ahimè! Tanti nobili desiri ed eloquenti propositi che alla fine ebbero una concretizzazione più infima e meschina che eterea, in quanto una volta trascorsi giorni e mesi – in cui effettivamente la rividi poche volte in fuggevoli occasioni – decisi di dichiararle il mio Amore senza badare troppo alla mia istessa insicurezza… alla mia profonda timidezza. Il risultato fu la mia ruina… il mio tormento… direi anche la sconfitta più dura e cruda che un essere umano poté subire sul suolo russo al di là di Napoleone. È giunto dunque il momento di introdurre in questa novella tutta la portata del mio tormento, e l’intera delusione del mio core. Più volte ho cercato di coprire gelosamente e ascostamente questa crudele verità, ovvero la verità che non fui amato da Evgeniya, attraverso la Poesia che rivolgendosi all’Ideale mi ha dato l’opportunità di sognare uno de’ tanti mondi possibili in cui tra le infinite manifestazioni d’Iddio esiste quella ove questa fanciulla volle accettare il mio Amore. Ora basta!.... Ho promesso di illustrare la verità di questo infelice sentimento amoroso. Non sarò spergiuro.

Rimembro che l’impeto della mia sventura si ebbe nel mese di maggio, allorquando forte del bel tempo, de’ prati fioriti e del fatto che l’avrei vista ogni qualvolta sarei andato a Pietroburgo, un dì scelsi di recidere dalla pianta spinosa una rosa rossa e aulente appena dischiusa dal bocciolo. Era mattina. Dovevo andare a Pietroburgo per i soliti affari. Sapevo con certezza che ivi l’avrei incontrata con piacere. Era dunque mia volontà donarle questa profumata rosa e nell’atto di donargliela dichiararle l’Amore che per lei oramai nutrivo senza pace. Passai dalla stalla del mio amico fidato, presi un cavallo, lo montai e mi decisi a dirigermi come sempre in città. Il Destino volle che in quell’occasione vi fosse lassù, nel limpido cielo, un Sole còcente che tanto irrorava eccessivo ardore insopportabile per qualsivoglia creatura vivente, ivi compreso un nobile fiore. Nonostante la rosa che avevo colto fosse protetta e lievemente nutrita dalle gocce della rugiada mattutina, essa consumò in fretta il proprio nutrimento, sicché quando entrai a Pietroburgo era oramai disidratata e appassita. Eppure ebbi l’avventato ardimento di non desistere dall’idea di regalarla a Evgeniya, tant’è vero che estraendo da una tasca del mio completo borghese un biglietto amoroso già scritto e una cordicella, legai al gambo del misero fiore il dolce messaggio. Fu veramente avventatezza ingiustificata, dal momento che potevo regalare un’altra rosa in un’altra occasione… in una giornata più favorevole. Ahimè! Allorquando di fronte alla cattedrale incontrai la mia bramata fanciulla, accompagnata peraltro da alcuni nostri amici tra i quali il conte Alekseij, un incallito e simpatico intenditore di taverne e di giuochi d’azzardo, e il maggiore de’ granatieri Paulov, un gaudente donnaiuolo che ogni volta ch’era in libertà si divertìa a far ischerzi molto divertenti, senza badare all’estetica del fiore le donai con un inchino la rosa. I nostri amici iniziarono a sorridere di gusto; e per ischernirmi bonariamente mi elogiarono come se fossi stato un mitico essere del mondo classico. Evgeniya, invece, mi osservò bieco, rimproverandomi con lo sguardo; e sorridendomi nervosamente prese la rosa, voltò le spalle e, dicendo a voce bassa qualcosa al suo gioviale seguito se ne andò via.

«Un po’ appassita quella rosa, poeta!» sclamò Alekseij ridendo così tanto a squarciagola da sembrare più un rustico contadino che un possente conte.

«Bhè! Alla fine l’ha presa quella rosa che non ha più nemmeno il profumo!» osservò Paulov cercando di mantenersi serio.

A quel punto, fingendo di essere in ritardo rispetto ai miei appuntamenti editoriali, e prendendo ciò come scusa, mi congedai da quella deridente compagnia e volsi altrove a meditare sull’accaduto. Era già palese che la mia avventatezza mi avrebbe rovinato e che Evgeniya non mi avrebbe mai amato. Pensai e sperai più volte di incontrarla in quella giornata al fine di scusarmi onestamente, senza però dover rinnegare l’affetto amoroso che nutrivo per lei. Ahimè! Non fu così. Certo è che il Destino non volle mai schierarsi dalla mia parte. In fin de’ conti soltanto la fatalità potea essere la vera responsabile del mio temporaneo – almeno credevo – fallimento, in quanto la mia avventatezza fu cagionata da un evento del tutto derivato dal dominio del caso. Eppure potevo almeno evitare di donarle quel fiore dinanzi a que’ individui dediti al giovamento più estremo; e scusarmi immediatamente per l’estetica appassita de’ petali. Ora che ci penso mi è chiaro come poi Evgeniya abbia intravisto nel mio comportamento realmente mosso dall’Amore un semplice e infantile giuoco dovuto al rozzo divertimento o peggio ancora al volgare passatempo. In que’ momenti di quella giornata, non comprendendo ancora questa verità, ero abbattuto e rattristito. Ma tanto nel frattempo mi giovava l’ischerzoso paragone che il conte e il granatiere vollero tracciare tra me e gli eroi della Classicità che alla fine pensai realmente di presentarmi alla nobil dama in modo eroico. Come potevo? Ora che sono lontano nel tempo da quegli istanti, mi conquide una sottile ironia nel descrivere brevemente ciò che pensavo e progettavo. Sicuramente sarebbe stato infantile, inutile e pure folle fermare a voce grossa una pattuglia e litigare coll’uffiziale che la comandava; né sarebbe stata una bella e giusta azione difendere qualche imputato politico destinato alla Siberia, dinanzi al fatto che Evgeniya apparteneva all’alta aristocrazia. Era d’uopo una gesta più profonda… più adulta e meno perigliosa. Non serviva un duello, né mi era utile una vana rivoluzione. Pensai a un tratto che il giorno seguente sarebbe stato eroico andare a piedi, senza alcun destriero, dal mio villaggio a Pietroburgo ove avrei comprato a caro prezzo una rosa rossa e l’avrei regalata alla damigella chiedendo il perdono per l’avventata azione del giorno precedente. Sì, oramai avevo deciso! Volevo e dovevo fare a piedi trenta miglia per andare a destinazione, e altrettante trenta miglia per tornare: sessanta eroiche miglia per affermare eroicamente il mio Amore. In quel momento m’assalì peraltro un mistico recordo della pugna per il riconoscimento così ben descritta da quel mio caro filosofo tedesco che vide nella nobiltà l’intemperanza impavida dianzi al periglio e alla morte istessa; e superando codesta lotta mi sentì in core come uno di que’ condottieri crociati pronti a conquistare la bramata Gerusalemme. Sentivo la Vittoria in pugno…. Già assaporavo i baci, le parole, le serenate e gli abbracci del trionfo amoroso. Ahimè! Quanto mi deludevano le dolci aspettative e la cieca Fede in Iddio.

Pria che fosse giunto il crepuscolo abbandonai Pietroburgo, presi il cavallo e ritornai a Ödyngrad, ove mi ristorai con una semplice zuppa e un povero pezzo di pane bianco, forse l’unico che poeta esserci nel mio povero villaggio di contadini. Appena giunta la sera andai a letto; e ivi mi addormentai presto in previsione della lunga camminata dell’indomani. Mi ridestai all’alba, sicchè potei facilmente comprendere che il clima mi era favorevole attraverso la placida temperanza dell’aëre e la splendida luce del Sole. Mi vestii elegantemente, mi lucidai gli stivaletti, presi per la primiera volta poscia molti anni una splendida spada, la foderai e la misi al mio fianco. Colle sembianze d’un gran galantuomo – come del resto lo sono dassenno – uscì dalla porta principale della mia dimora e con una ben definita e ansiosa velocità m’incamminai verso la città. Né in quell’occasione, né ogni volta che recordai ciò che feci, m’apparve faticosa l’impresa che mi ero proposto e che alla fine portai effettivamente a compimento. Invece m’apparve immantinente cosa ben chiara e definita che tutto fu un ammasso di vanagloria… di folle speranza e infinita vanità, sìccome divenne verità il fatto che con ogni probabilità non avrei mai potuto fidanzarmi con Evgeniya. Allorquando giunsi in città in un’ora indefinita della tarda mattinata, infatti, dovetti far fronte a un feroce fallimento sentimentale.

Recordo gemendo che andai in cerca d’un fioraio onesto. Quando l’ebbi trovato, presi una bellissima rosa rossa, la comprai; e una volta fatto questo, andai immediatamente a cercare la nobile fanciulla. Sìccome mi era accaduto già il giorno precedente, la rinvenni a spasso per un ricco viale in compagnia del conte e dell’uffiziale de’granatieri, sicchè pensai di aspettare saggiamente al fine di evitare ulteriori imbarazzi e derisioni. Ma come potevo aspettare ancora, data la delicatezza della rosa che gelosamente portavo in mano in vista d’un dono tanto gentile quanto amoroso alla mia cara dama? Se avessi atteso a lungo, probabilmente anche quel fiore si sarebbe disidratato, e una volta appassito, sarebbe stato inutile… sarebbe stato nuovamente un onere periglioso dinanzi all’Amore. Ebbene, non potendo aspettare, mi feci avanti, la salutai ripetendo in modo freddo i saluti alla sua allegra compagnia, m’inchinai, le domandai perdono, e tendendo in avanti verso la sua mano destra la rosa, le dissi che que’ bei petali, quel profumato stame era un regalo per lei. Ahimè, ben poca grazia e tanta gelida indifferenza mi palesò Evgeniya la quale, stando in silenzio per molto, accettò il dono ringraziandomi lievemente. Quello che non mi piacque maggiormente fu il fatto che ella si voltò immantinente verso il conte, gli sussurrò qualcosa nell’orecchio, fece una smorfia guardandomi bieco, e si allontanò di nuovo da quel luogo lasciandomi in balia della sua compagnia.

«È andata male!» sussurrai in modo ardito rivolgendomi verso Alekseij che pure era un mio caro confidente. Questi, a dispetto delle mie aspettative, iniziò seriamente a prendere le mie difese, e volle confortarmi tanto tenendomi viva la speranza quanto non lasciandomi fuggire dal core il dolce desiro. Mi esortò perfino a seguire Evgeniya, a parlarle, a dichiararmi direttamente senza alcuna rosa… senza alcun fiore. Poiché alla fine osservò attentamente che, nonostante i suoi consigli, me ne stavo in piedi di fronte a lui ad annuire timidamente senza far nulla, egli mi obbligò in un certo modo a fare ciò che volea che io avessi fatto – cosa che del resto era consona alla volontà del mio inconscio -. Per questo mi decisi a congedarmi da lui e da Paulov, e ad andare all’inseguimento ansioso di Evgeniya che, una volta trovata, mi freddò il core con uno scarno accento. Con voce alquanto sgarbata mi disse «Lasciatemi in pace». Detto ciò continuò per la sua strada. Quanto mi abbatterono la speranza quelle parole crudeli e infami! Quanto mi rattristò mirare che ella non aveva più in mano la rosa che le avevo donato!.... Quel giorno tornai a Ödyngrad in uno stato angoscioso di delusione e di melanconia.

Era sera. Tacea l’aëre ferino. A un tratto dovetti fronteggiare l’indefinita e vaga volontà di consumare l’intera notte in lagrime… in amarezze… in crudi lamenti. Il pianto aveva il desiro di uscire copioso dal mio ciglio; e il mio core sperava di sentirsi soffocati per sempre i palpiti nell’angoscioso porto del dolore e del tormento. Avrei voluto sicuramente spirare. Ma, ahi lasso, non riuscivo né a dar sfogo al pianto, né a farmi così tanto conquidere dal duolo da morire addolorato per un folle Amore. Quella sera qualcheduno che dimorava nel vicinato ebbe l’ardimento di prendere in mano un violino, e di sònare con esso una mesta melodia amorosa. Perché, sommo Cielo, siffatta derisione? Perché codesto tormento?.... Ogni nota che udivo… ogni flebile corda che tristemente venìa mossa con delicata perizia era una goccia di pianto che volea scendere lungo le mie guance, senza poter però uscire dalle mie pupille… dalla mia iride rattristata e lucida. Il melanconico susseguirsi di nostalgici sòni alti e bassi, l’infuriare della voce dell’istrumento, si unì poi all’unisono ai frequenti palpiti delusi del mesto core che andava colpendo il mio petto, recordando al corpo istesso la sciagura che subì lo spirto. Mi addormentai all’improvviso in questo caotico riaffiorare di crudeli sensazioni, e di sentimenti oramai destinati a morire inappagati per colpa del Destino, fors’anche dell’intero genere umano. Evgeniya era una mia amica; ma non mi amava. Questa era una verità insopportabile che non potevo accettare di buon grado.

Da quegl’istanti in poi i miei rapporti con lei divennero freddi sicchè spesso pensai che ella non fosse più degna nemmanco della mia Amicizia. Una settimana dopo tornai a Pietroburgo a piedi, non per dimostrarle ancora la mia vana eroicità, ma per palesarle una menzogna infame, ovvero per farle osservare che il suo diniego non ebbe alcun risultato negativo sull’integrità della mia mente, del mio spirto e del mio corpo. Eppure l’ira era in agguato. Passati alcuni giorni, recordando quello che mi accadde, e ascoltando la confessione di Evgeniya istessa fatta a una nostra amica – quello che non potei gradire fu anche il fatto che costei mi prese per un sordo, forse per un mentecatto, dal momento che si confidò in un luogo ove stavo pure io, a meno che non abbia voluto consapevolmente farsi udire da me – seppi che mentre cercavo di dichiararmi a lei, ella aveva un’ispecie di rapporto amoroso col conte Alekseij il quale, ancora innamorato della dama che mesi pria lo aveva abbandonato e tradito, dovette usare i miei sentimenti per allontanare la marchesina. Mi ritenni immediatamente tradito da colei che amavo e dai miei amici più cari e fedeli che, in fin de’ conti, sapevano tutto e di tutto continuavano a lasciarmi nell’oscuro. Mi rinchiusi allora nella mia dimora, in me istesso; e per molto tempo non volli vedere Pietroburgo, né que’galantuomini che in quella dannata città incontravo. Ma la sciagura era soltanto a metà del suo compimento, giacchè in realtà non avevo ancora perduto nulla, nemmanco la speranza.

Dopo tre o quattro mesi iniziai nuovamente a frequentare la città e i miei amici di sempre con molti de’ quali il mio silenzio fu forse tanto gratuito quanto ingiusto. Per questioni di affari editoriali, per successi poetici ottenuti in molti salotti aristocratici e borghesi, e per la mia opposizione ad alcuni circoli positivisti ero diventato un uomo alquanto importante… un lume della cultura locale. Evgeniya, almeno secondo un mio presentimento, pensò bene che fosse giunto il momento opportuno di far pace con me, e fors’anche di ritrovare in suo vantaggio quell’Amore che avevo per lei. Effettivamente l’armistizio tra noi due si ebbe, sìccome si ebbe probabilmente qualcosa di più. In occasione d’un salotto da tenersi nel palazzo del conte Alekseij mi fu recapitato un invito firmato a nome della marchesina istessa in cui venivo chiamato Amore. Accettai di essere invitato; tuttavia, per non fare impazzare eccessivamente il mio core, volli adoprare una ben definita dose di freddezza. Allorquando incontrai Evgeniya le chiesi infatti se ella non avesse avuto qualche attacco di pura follia nella composizione dell’invito. Mi rispose – probabilmente mentendo – che il biglietto fu scritto ischerzosamente da una sua amica. Se invece di una dama avessi avuto di fronte un uomo lo avrei schiaffeggiato col guanto de’ duelli, in quanto non vidi mai tanta infantilità o tanta tracotanza in un individuo quanta ne osservai in lei. Infatti o fu infantile in quanto non ebbe il coraggio di dichiararsi a me – laddove dal suo punto di vista se si fosse dichiarata avrebbe dovuto forse chiedermi perdono e supplicarmi – e perciò rinnegò se medesma in favore d’un ischerzo; o fu tracotante in quanto si permise attraverso la giovialità d’una sua amica di prendersi giuoco di me. Pensando a quello che accadde in seguito, tuttora credo fortemente che ella sia stata infantile in quanto più d’un’occasione mi sembrò propensa ad amarmi, come in quell’istante d’una piacevole discussione in cui facendomi gli sguardi dolci m’invitò palesemente e insistentemente a seguirla per un viaggio in Italia; o come quella volta che si lamentò civilmente del fatto che il giorno seguente non avrei potuto essere a Pietroburgo. In verità credo che Evgeniya abbia voluto aspettare quella mia dichiarazione che non avvenne mai poiché mentre mi indirizzava i dolci sguardi dell’Amore, mentre mi invitava qua e là e via dicendo, osava elogiare dinanzi agli amici un tale uffiziale che le giovava alquanto e che tanto desiava conoscere. Eppure mi potevo dichiarare. Che cosa avevo da perdere oramai?.... L’Amicizia, questo è vero in ogni caso. Se ella fu dunque infantile, io fui eccessivamente preoccupato per la difesa d’un amichevole giuramento, sicchè alla fine dovetti forse rinunziare all’Amore per timore di perdere un’amica. Ora era Evgeniya l’eterna indecisa. Potevo un giorno avere la certezza del suo interesse o del suo disinteresse sentimentale, in quanto mi accordai cogli amici – lei compresa – che il mattino dopo sarei arrivato a piedi in città per puro giuoco atletico.

«Allora domani verrete qui a piedi?» mi domandò la marchesina.

«Forse» le risposi per evitare in modo stolto sospetti amorosi a lei rivolti.

«Cercate di esserci domani, poiché io vengo in città soltanto per voi» mi disse ella che poi, senza seguire il filo del discorso, ovvero senza coerenza aggiunse «Debbo consegnare delle carte a Palazzo».

Sapevo che la mattina seguente non l’avrei nemmanco intravista, forse perché fui con lei troppo freddo, forse perché ella si corresse e preferì non farsi vedere per non mettermi nel core mendaci aspettative e speranze bugiarde. Tuttavia v’erano quelle maledette carte di cui mi parlò: se le dovea effettivamente consegnare, allora con ogni probabilità non si fece vedere perché non voleva farmi invadere da surreali manifestazioni d’affetto; se invece non le aveva poiché non esistevano, non volle vedermi e farsi da me vedere perché fui crudele. Purtroppo non potei comprendere nulla sull’esistenza o l’inesistenza di que’ documenti, in quanto spronata da me Evgeniya disse che un giorno li avrebbe portati a Palazzo – anche perché a quanto pare erano molto importanti -; ma – per quanto ne so tuttora – nessun principe, nessun duca, nessun maggiordomo o lo czar istesso li ricevette da lei.

Questi dolci sospetti, queste speranze e questi intrighi continuarono fino all’estate di quell’anno allorquando il giorno istesso in cui il mio editore di fiducia mi disse che probabilmente avrei dovuto aspettare alcuni mesi per la pubblicazione delle mie poesie a causa di problemi finanziari che lo tormentavano, trovai la marchesina a braccetto con un galantuomo che aveva incontrato da poco tempo. Erano fidanzati!.... Rimpiango tuttora il fatto che in quell’occasione io non abbia avuto la spada al mio fianco: sarebbe stata la primiera volta in cui avrei ucciso a tradimento un essere umano al fine di vendicarmi di quello che per me fu ed è tuttora un tradimento. Quella notte istessa non potei chiudere occhio; e quando alla fine mi addormentai fui invaso dalla sensazione terribile d’una folgore che mi colpì il corpo sicchè, ridestandomi in ansia, finalmente piansi sulla mia sventura singhiozzando maledizioni contra il Destino.

Che cos’è mai il tradimento se non quella delusione che sorge rispetto a una speranza consolidata dagli eventi e rispetto all’Ideale medesmo attraverso il quale si debbono plasmare i fatti? Non è sicuramente ciò che molti intellettuali e uomini comuni vanno descrivendo, ovvero la scoperta che la conoscenza che si ha di un individuo o di un oggetto non corrisponde alla realtà, in quanto è pure errato, ingiustificato e infondato nutrire siffatta conoscenza che in un contesto amoroso può essere più dannosa che benefica. Infatti non si può rinunziare a conoscere un altro essere umano e a farsi conoscere e riconoscere da questi mediante l’Amicizia, l’Amore e la Famiglia, poiché il tradimento sta appunto laddove non si ha conoscenza, né si ha la presunzione di averla. Se io avessi conosciuto Evgeniya, avrei allora compreso che sentimentalmente non era una fanciulla integra, onesta e libera da pregiudizi e da interessi corporei, nonché da folli questioni di gusto. Avrei capito che ella era più infantile di quanto lo sia stato io istesso in alcune occasioni… più indecisa e insicura del mio core medesimo. Se effettivamente l’avessi conosciuta, avrei inteso che ella nelle scelte d’Amore preferiva sempre donare la propria fedeltà al migliore acquirente, non meretrice ma indegna mercenaria di sentimenti nobili e di sacre sensazioni. Vi fu un istante della sua vita in cui sembravo io il migliore offerente: bel sembiante, nobile possa, immensa cultura e buona carriera. Non appena trovò un galantuomo migliore, io per lei sentimentalmente fui… divenni, ovvero passai a miglior vivere. Mi allontanò quando non desiava la mia presenza al suo fianco seducente; e cercò – almeno suppongo – di amarmi allorquando il mio dolce sentire le facea comodo e la beava divinamente. Poi mi tradì… mi subissò e m’abbandonò al duolo e alle ansanti meditazioni. Ahimè! Non la conobbi. Perciò non compresi questa crudele e infame verità; anzi sperai amorosamente fino all’ultimo giorno in cui credevo di poterla avvicinare al mio core. Ecco che giunse allora il tradimento… il folle rovesciamento dell’Ideale… la fine dell’inizio della conoscenza.

Nel mese di settembre del medesmo anno potei pubblicare finalmente il mio libello di poesie tragiche. Un giorno alcuni amici vennero alla mia dimora a complimentarsi con me. Tra questi v’era anche Evgeniya. Non ci dicemmo nulla; ci guardammo freddamente in silenzio. Le porsi la destra. Me la strinse attendendo gelidamente un istante. Non sapevo perché si fosse trovata lì, in casa mia, nel dì della mia vittoria poetica a rimembrarmi religiosamente che tutto l’Universo della concretezza è vanità… nient’altro che indarna vanità. Stetti in silenzio non perché l’avessi oramai in odio, bensì perché non avevo più nulla da dirle al di fuori delle solite banalità che si dicono a que’ conoscenti che non si vedono da molto tempo. In quell’istante cotanto silente mi apparve qual fantasima all’orecchio il sòno del suo violino. Mi recordai della musica… della lirica e del celebre Wagner. Mi assimilai allora a un di que' personaggi norreni che poté contemplare in estasi il crepuscolo de’ Numi, giacchè dinanzi ai miei occhi un Nume decadeva, per sempre, lasciando nel mio trionfo forse l’inizio d’una generazione divina redenta dall’Apocalisse, e nel fallimento del mio desiro amoroso un mondo dominato non più dall’Amore ma dall’Odio.


Massimiliano Zaino 27/04/2011 12:06 1110

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