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Una sala parto sotto le stelle

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E’ stato un brusco risveglio quella mattina. Cumba, l’ ostetrica della casa di Santè, mi aveva mandato a chiamare assieme ai colleghi: la donna gravida che avevamo visitato qualche giorno prima era in pieno travaglio.. Ci fu un bel trambusto, un veloce viavai, niente colazione, una fila superveloce al bagno, le divise già indosso. Mandalà,il cavallo addetto al nostro trasporto ed il suo conducente, erano già lì pronti sulla spiaggia. C’ era bassa marea; il carretto, passando sulla sabbia, sfiorava le onde dell’ oceano. Per raggiungere Mboro, godevo di una bellezza particolare: il rientro dei pescatori che portavano a riva le enormi piroghe colorate; io, con le gambe penzoloni, sostenendomi con forza sui palmi delle mani per non cadere, osservavo I’ alba pensando di arrivare in tempo per il parto. Lì a destinazione una sola "sala travaglio- parto- degenza- ambulatorio", la sala d’ attesa era fuori, sulla sabbia. Per nascere, nessuna luce o culletta termica o lucide mattonelle, solo una povera stanzetta, che non aveva nulla, se non un lettino arrugginito, senza lenzuola. La donna, colorata dagli abiti che avvolgevano il suo corpo, era piena di antico pudore. I suoi abiti esaltavano la pelle nera. Soffriva in silenzio le sue contrazioni uterine, come un destino a lei assegnato, solo per essere donna. Nulla, nemmeno un lamento dalle sue labbra, qualche smorfia . Solo i suoi occhi parlavano di quel dolore di madre. Lì il dolore è diverso: nemmeno i bambini con le ferite infette piangono durante le medicazioni. “ Poussez! Poussez! Spingi! Spingi”! dicevo alla donna ormai in sala parto. Pochi gli strumenti a disposizione, disinfettati malamente in mezzo alla polvere in un ambiente dove I’ acqua non scorre nei tubi e lavarsi le mani è molto difficile. Un’ ultima spinta ed ecco un vagito: è una femmina sana e vivace. Un respiro profondo, come dopo ogni parto. Tutto sembra finito; ma che succede?? Guardo l’ addome ancora prominente, tutti lo guardiamo e siamo allarmati. “ Sono due!! Sono due!!”, Gridiamo sorpresi e spaventati: è una gravidanza gemellare e il secondo gemello é in posizione podalica. Un parto difficile qui in questo mondo dove non c’è ancora né luce né acqua, e neppure la sala operatoria. Mentre ci preparavamo al secondo parto, l’ ostetrica locale masticava un bastoncino di legno, quello che solitamente usano per pulirsi i denti, con il flemmatico fatalismo degli africani. La vagina della donna rimaneva dilatata; ecco spuntare il primo piede, solo uno. Davanti agli occhi come per magia appare il manuale di ostetricia. Parto podalico pagina…. Agganciare l’ altro arto, assecondare le rotazioni naturali. Spunta anche il sederino della bimba. Favorire l’ espulsione delle spalle…. Leggevamo mentalmente tutti insieme… Infilare la mani nella bocca del feto in modo che la testa possa rimanere flessa e offrire un diametro più favorevole all’ espulsione. Tutto procede bene. Molto sangue freddo, molta professionalità ed esperienza da parte dell’é quipe, ed ecco prendo tra le braccia anche la seconda bambina, scalciante, prepotente e con tanta voglia di vivere. Più serena ora, anche se la puerpera ha bisogno di un controllo intensivo nelle due ore dopo il parto: guardavo i due esserini appena venuti al mondo. Le piccole in un pianto quasi silenzioso, capivano sicuramente di essere nate in Africa. Ora avvolte anche loro in teli colorati, seppure col cordone a penzoloni malamente disinfettato e legato con uno spago grosso, sembravano delle principessine adorate dalla madre, regina di felicità dopo la sofferenza. Nello sguardo della donna, amore per le bimbe e tanta riconoscenza . Un grazie fatto sguardi e di lingua wolof, incomprensibile per me e per tutti noi. Oggi, quelle due bimbe nate alle porte del Natale, con la neve sulle nostre alpi e col caldo in Senegal, hanno quasi due anni e presto le rivedrò. Mi aspettano, ci aspettano, con la loro mamma. Tutti lì attendono il nostro arrivo: i malati, i collaboratori, e i dolci amori nati e rinnovati tra il bianco e il nero, il chiaroscuro come luce e ombra, come vera vita. E si affaccia la nostalgia di quella terra e penso che è vero che esiste il mal d’ Africa. Riaffiorano prepotenti i ricordi del primo viaggio. Arrivai che era notte fonda a Dakar, con tanta stanchezza nel corpo, ma l’ animo pieno di gioia, pronta a dare il meglio di me. Una bella é quipe: una ginecologa, due ostetriche, due dermatologi tutti abbastanza ignari del lungo viaggio che ci aspettava. Solo i presidenti della nostra associazione erano consci delle difficoltà che avremmo incontrato….. E pensare che ci avevano avvertiti!! Dall’ aeroporto un vecchio camioncino aperto, tra scossoni e polvere, ci trasportò a Mboro, piccolo paese di pescatori sull’ oceano a sud di Dakar. Avevano informato me e tutta l’ equipe che in Senegal a dicembre era caldo. Ma la notte faceva freddo, e noi, addossati gli uni agli altri, cercavamo di scaldarci un po’. Ed eccomi a Mboro alle quattro del mattino, credevo di essere giunta a destinazione, ma sbagliavo: mancava ancora qualche chilometro. Venne a prenderci un carretto trainato da un cavallo, Mandalà. Solo l’ indomani avrei visto quanto era scheletrico quel povero cavallo che ogni giorno mi portava al lavoro. Eppure stanca, assonnata e infreddolita, ho ammirato per la prima volta la luna d’ Africa, grande e lucente, che si specchiava nell’ oceano. Impagabile ai miei occhi anche lo spettacolo al risveglio: la capanna sulla spiaggia, sull’ oceano, offriva sole e calore. Una spiaggia infinita dove l’ orizzonte spariva dalla mia vista tra la foschia e l’ azzurro molto azzurro del cielo africano. Una spiaggia infinita abitata da una miriade di piccoli granchi che facevano a gara per scavarsi un nascondiglio nella sabbia .I ricordi dei panorami si uniscono a quelli interiori: alle feste dei miei amici senegalesi, che offrivano a me e a tutta l’é quipe il benvenuto, ripagandomi ampiamente della fatica del lungo viaggio. Viaggio che, ormai da qualche anno, si rinnova. Offro il mio lavoro a chi ne ha bisogno e ricevo tanto in cambio: una ricchezza impalpabile, spirituale, che tutti possono leggere nei miei occhi ad ogni rientro.


Eva Peddio 18/04/2019 19:55 1 715

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.


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Commenti sul racconto Commenti sul racconto:

«Emozioni incondizionate. Chi si accinge a leggere questa esperienza vissuta, si addentra sempre di più e volentieri, in un mondo di stupore e religioso donarsi costantemente, da parte di chi lascia la propria terra, e la sicurezza della propria famiglia, per prestare soccorso materiale e non solo. Complimenti per tutto ciò che offre l’autrice.»
Ausilia Giordano

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