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I nostri quaranta chilometri

Biografie e Diari

I NOSTRI QUARANTA KILOMETRI

Te ne sei andato quel maledetto 20 maggio. Ho perso te, papà e tutte le cose fatte insieme. È come se di punto in bianco nell’ MP3 si fossero cancellate, una dopo l’ altra, tutte le canzoni della mia playlist. Ho perso le feste della vendemmia nella nostra campagna a Ramacca. Quella terra secca e dura che non sopportavo. La sentivo sotto i piedi quell’ aridità e mi rendeva nervosa. Poi, dopo l’ irrigazione, ecco la metamorfosi, e si trasformava in qualcosa di sgradevolmente molle dove si sprofondava, come palude. Non la sopportavo ma la rispettavo perché era la nostra terra. Alle feste eravamo in tanti. Tu, la mamma, le mie sorelle, io, i nonni, tutti gli zii, i cugini, i vicini di casa, gli amici. Voi adulti e i ragazzini dai dodici in su raccoglievate l’ uva in cestoni azzurri di plastica. Li caricavate sopra un’ Ape e poi via fino alla casa rurale dove c’ era il tino. Era un continuo via vai e in uno di quei viaggi vi siete trovati con un cestone vuoto, non so come mai; e tu, con le mani che sapevano di mosto, mi hai presa da sotto le braccia e mi hai infilata in quel cesto appiccicoso mentre ridacchiavi. Ti piaceva farmi gli scherzi e soprattutto ti piaceva farmi arrabbiare e ancora di più il fatto che te lo lasciassi fare. Te ne ritornavi alla raccolta tranquillo, invece io ero arrabbiata. Avevo i sandaletti nuovi di tela bianca con le righine blu e piangevo nel sentire quell’ appiccicaticcio sotto la suola. Con due dita mi tenevo ai bordi del cestone per non cadere evitando che il vestito si poggiasse sulle pareti viscose. Non capivo perché la mamma mi facesse indossare abitini delicati ed eleganti anche per andare in campagna. A parte la sensazione di attaccaticcio e lo sgradevole odore di mosto, dall’ Ape c’ era un bellissimo panorama sulle vigne. Per un po’ provai una sensazione magica: come se, tutt’ a un tratto, mi avessero dato trenta centimetri in più per ammirare il vigneto nella sua tridimensionalità. Guardavo in ogni direzione senza averne mai abbastanza e, dimenticando tutto il resto, arrivai con il vestito immacolato. Non poteva essere altrimenti, dopo tutte le cautele adoperate per non sporcarmi. All’ arrivo qualcuno mi chiese come e perché mi trovassi dentro il cesto e mi tirò fuori mentre la mia faccia diventava sempre più rossa perché l’ arrabbiatura ritornava e non se ne andò nelle ore che seguirono. Se ne ridusse l’ intensità solo nell’ ora della pigiatura. A piedi nudi nel tino, schiacciavi l’ uva fresca a suon di risate o vecchie canzoni imparate durante la guerra e nemmeno in quell’ occasione risparmiavi sulle tue chiacchierate. Mai pigiato senza ridere, parlare o cantare e ti guardavo sbalordita, ne rimanevo incantata. Lì, i nostri sguardi di colpo s’ incrociarono e in quel momento esatto incominciai a ridere di gusto. Era un toccasana per me quella tua danza. Eri uno spasso. Però l’ odore dei grappoli pigiati non lo sopportavo. Forse poteva essere inebriante per gli altri e servire a renderli euforici. Utile ad alleviare la fatica della raccolta, ma per me era troppo forte e fastidioso. Per fortuna poi che c’ erano le lunghe tavolate col pane croccante sfornato dalla mamma, le olive, i formaggi, qualche fettina di “ suppizzata” (soppressata) e la Coca- Cola, solo un bicchiere però.


Ho perso anche i lunghissimi pomeriggi di giugno, stesa sopra un lettino "quello di quando eri ragazzo" nella casa di campagna senza mai dormire; ore e ore sveglia ad aspettarti. Sembravano non passassero mai. Venivo con te soprattutto per farti compagnia in macchina durante i 40 chilometri che c’ erano fra la nostra casa in paese, a Misterbianco, e la campagna. Ci si metteva un sacco di tempo perché non facevi più di 70 all’ ora. Per te i 100 erano solo prerogativa della Formula Uno.
Troppo piccola per darti una mano, mi toccava "stare a riposo". Quando ero stufa dell’ ozio forzato, uscivo e facevo non più di dieci metri oltre l’ uscio. Andare più avanti mi era stato proibito e siccome ero una bambina ubbidiente, non mi passava neanche per l’ anticamera del cervello l’ idea di allontanarmi. Rispettando la distanza imposta, mi accovacciavo sul terreno libero da erbacce, ed è lì che mi trovavi al tuo ritorno. Sempre attenta a non sporcare la gonnellina rigorosamente cucita dalla mamma, mi mettevo ad ammirare le file lunghissime di formiche. Non capivo da dove arrivassero, ma mi divertivo a guardarle mentre camminavano impazzite fino a scomparire nei buchetti. A volte, ne deviavo il transito con lo stelo sottile delle pratoline. Ne sceglievo una dal mazzolino che mi avevi portato nella pausa pranzo. Chissà perché poi avevo questa fissa delle formiche. Era un gioco che ormai facevo da un anno e sapevo che era un’ abitudine presa anche da altri bambini. Sapevo anche che alcuni, come me, deviavano soltanto la camminata delle formiche, altri ci andavano sopra coi piedi deliberatamente ed era una strage. Non capivo quale fosse il loro divertimento. Lo consideravo un gesto assurdo; questione indegna di menti cattive. Io non avevo mai calpestato di proposito un formicaio.
E poi arrivavi tu finalmente, verso le sei e mezza. Dopo una durissima giornata di lavoro, quasi da schiavo, posso dirlo, che iniziava, visto il caldo soffocante e l’ arsura, già alle quattro del mattino. Senza camicia, con la pelle bruciata dal sole e l’ odore di terra sui pantaloni, mi sedevo sulla tua gamba destra e ti parlavo delle formiche e di quanto fosse tragico il loro destino con certi bambini. Caro papà, avevi capito il mio discorso e tutta la mia sensibilità e mi mostravi il cestino di gelsi bianchi raccolti per me. E con l’ indice sulle labbra mi ordinavi di mangiarli tutti. Ci andavo matta e non me lo facevo ripetere due volte.
"Su dai, prendi le tue cose, prima che faccia buio". Mi ripetevi ogni volta che dovevamo tornare a casa.
Ci preparammo ed entrammo nella fiat 127 bianca.
Iniziammo a fare i quaranta chilometri. A bordo solo noi due. Mi sono girata alla mia sinistra e ho visto te con i tuoi splendidi quarantasette anni. Ho guardato oltre il parabrezza e non ho trovato la strada ma solo nuvole. Mi sono rigirata verso di te e portavi una divisa da pilota.
-"Papà, sto sognando o siamo davvero sopra un aereo?"
-"Sì, certo, stiamo volando e non sarà il nostro ultimo viaggio".
-"Papà, lo sai che mi sto divertendo".
Ci sto così bene. Fosse per me non scenderei mai da questo aereo.
Vorrei che il tempo si fermasse per non doverti perdere.


Lucia Zappalą 19/01/2021 06:34 284

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.


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