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Storia di paese (Un piano diabolico) 31 Episodio

Fantasy

Rosalia dopo che la figlia si era finalmente addormentata, ne approfittò per sdraiarsi sul letto, stanca della lunga camminata e sfinita per gli eventi. Aveva bisogno di riposarsi, il sole adesso aveva svoltato l’ angolo lasciando la sua camera al fresco. Il sonno non tardò ad arrivare e presto sprofondò nell’ incoscienza. Stava sognando Totuccia che le diceva di stare accorta e di non fare scelte di cui si sarebbe pentita, lei diceva alla madre di non andarsene e di non lasciarla mai più da sola. La vedeva, bella come un tempo, gli occhi pieni di sole e il viso sereno… Poi in un istante il cielo si fece buio e improvvisi lampi lo illuminarono, facendo un rumore assordante. Rosalia si abbracciava alla madre impaurita da tanto frastuono, questa le accarezzava i capelli rassicurandola quando improvvisamente il cielo si squarciò in due e nel mezzo apparve una figura dal volto mostruoso, che con una voce cavernosa le diceva che ormai il destino era segnato e niente e nessuno poteva cambiarlo. Lei cercava di urlare e di chiedere aiuto ma il buio la inghiottì in un secondo portando con sé le sue grida.

Si svegliò con il cuore in gola per il pianto della figlia e in quell’ attimo le sembrò che una figura vestita di nero attraversasse la stanza sparendo dietro le tende di lino del balcone. Aveva la sensazione che stesse per accadere qualcosa di brutto… Ma cos’ altro poteva succedere di più terribile dell’ omicidio della madre? Forse la sua morte? Cercò di mandar via questi brutti pensieri e abbracciando la figlia le disse: “ A matri to jè truoppu stanca, ma a Maronna nun ci lassa suli, u suli apprima o dù oppu nesce puri mi nuatri dui.”

E così dicendo, raggiunse la zia nell’ orto.

Il tramonto aveva colorato il cielo di colori sfumati dal rosso al colore brillante dell’ oro, uno spettacolo così affascinante da restarne abbagliati. L’ unica a cui non faceva nessuno effetto quello spettacolo della natura, era la marchesa, che ormai vedendo che il figlio ancora non era tornato, s’ aggirava per casa come una tigre inferocita. Sentendo l’ arrivo del nipote lo affrontò immediatamente: ” Liborio jè tornatu? Picchì rumani vogghiu iri a fari visita a chidda cugina Filippa chi jè la matri superiora du monastero del Santissimo Sacramento…”

Don Vincenzo rispose: “ Liborio arristau ddà, picchì avia ri fari à utru… Ma si vuliti vi pozzu purtari iu…”

A quel punto restò un attimo disorientata, non sapeva come rispondere, se avesse rifiutato, il nipote se ne sarebbe chiesto il motivo, se invece accettava avrebbe dovuto inventarsi una scusa dell’ ultimo momento per non andare. Scelse la seconda opzione ma nel contempo si promise che non doveva passare un giorno in più senza sapere che fine avesse fatto effettivamente Liborio.

Inaspettatamente non dovette attendere molto in quanto la verità le fu quasi sbattuta in faccia da due giardinieri che stavano togliendo le erbacce dalle aiule del grande giardino.

I due parlavano a voce alta uno diceva all’ altro: “ Ma chi tiempi, unu nun si po’ mancu ubriacare chi ti mettinu ‘ na gaggia…”

L’ altro: “ Dicono chi avi parratu mali ai carabbineri. E mi avi rittu u ‘ me parente chi Liborio dava ri matto.”

Carolina nel sentire la notizia dell’ arresto del figlio per ubriacatezza, fu presa dall’ ira e si ritirò nella sua stanza per riflettere. Questo poteva diventare molto pericoloso per il suo progetto inoltre la sua preoccupazione crebbe nel sentire che Liborio era fuori di testa. Le domande si accavallavano, disorientandola, cosa aveva fatto o detto ai carabinieri per averlo arrestato?

Doveva assolutamente sapere e incontrarlo al più presto, ma come fare senza insospettire il nipote e gli altri? Oltre a ciò perché il nipote aveva mentito inventandosi quella scusa mentre in realtà sapeva tutto? Mentre cercava una risposta a tutti i suoi dubbi, il figlio nella cella sempre più inquieto chiese di poter parlare con il maresciallo.

Costa gli chiese: “ Ri chi vvoi parrari o maresciallo… puoi diri a mia…”

Liborio rispose con astio: “ Cu te? T’ haju rittu chi vogghiu parrari cu Calogero, capisti?”

Costa: “ Viriu chi ancù ora nun ti jè bastato dui jorna pi gaggia? Po ì essiri chi ci vvoi stari chiu assai?”

A quel punto Liborio perse la calma e iniziò ad urlare: “ Marescià, marescià… vi vogghiu parrari, mi ‘ ntisi?”

E continuò con questo tono, al punto che Costa lo intimò di smetterla se non voleva passare altri guai, ma questi sembrava non ascoltarlo. Alle sue grida accorsero anche Finocchiaro e Privitera, i quali cercarono di placarlo senza tuttavia riuscirci, quando fece il suo ingresso nella caserma il Maresciallo Calogero, sentendo tutto quel grande trambusto si precipitò per vedere cosa stesse succedendo, Liborio vedendolo si quietò un po’ e poi gli disse: ” Marescià vi vogghiu parrari…

Calogero fece cenno a Costa di portarlo nella sua stanza, questi lo liberò e lo condusse da lui.

Si sedette di fronte aspettando un cenno da parte sua, Calogero dopo aver acceso una sigaretta e aspirato lungamente gli chiese: “ Allura si ca, parra, cù osa vi vvoi diri?”

Il figlio di Carolina sapeva bene che doveva giocare di astuzia se voleva ottenere qualcosa allora iniziò: “ Prì misi mi vogghiu scusare si vi haju offeso, ma sapiti comu si dici, u vinu fici l’ omu scimmia, nun capivo nenti e nun sapevo cù osa stavu facennu o dicendo.”

Calogero era consapevole che non aveva altri motivi per trattenere l’ uomo e pur convinto che ciò che aveva detto non potevano essere solo fantasie non gli restò altro da fare che liberarlo.

Gli disse: “ Vattinni e chi nun si ripeta cchiù… si no pi tia cc’è a galera. Costa accumpagna chistu galantuomo fù ora…”

Liborio s’ incamminò verso il maniero con l’ animo in tumulto e timoroso di dover affrontare la madre, verso di lei provava sentimenti contrastanti, amava quella donna più di ogni altra cosa al mondo ma nello stesso tempo l’ odiava per aver manipolato tutta la sua vita, costringendolo a compiere atti impensabili e impedendogli di condurre una vita normale, come sposarsi e farsi una famiglia. Quando arrivò la luna era già alta nel cielo, la casa era immersa nel silenzio, entrò cercando di fare meno rumore possibile, non se la sentiva in quel momento di affrontare né la madre, né il fratellastro, era meglio rimandare lo scontro all’ indomani.

Ma entrando trovò Don Vincenzo intento a pulire i suoi fucili da caccia, aveva tolto tutto lo sporco con un pennello e oliato per bene ogni singola parte per evitare che la ruggine incrostasse, soprattutto i fori dei percussori. Per sua fortuna, era talmente concentrato, che non si accorse del ritorno di Liborio, il quale di nascosto, riuscì a non farsi vedere e così velocemente raggiunse la sua stanza.

Una volta dentro si versò un bicchiere di Rosolio e lo bevve tutto d’ un fiato a cui ne seguirono ripetutamente altri, dopo si buttò sul letto e sprofondò in un sonno pieno di incubi. Si rivide bambino con il viso sempre triste che camminava a fianco della madre, austera e senza il più piccolo gesto d’ affetto nei suoi confronti. Per la madre doveva crescere in fretta per potersene servire per la vendetta. Erano a piedi su una strada dismessa e piena di voragini, cercava di evitarle per non sprofondare nel vuoto, e inutilmente le chiedeva la mano per non cadere, ma lei lo guardava sprezzante incitandolo a continuare il cammino senza lamentarsi… poi la strada divenne più stretta e più vicino il baratro fino a che non era più possibile evitarlo ed entrambi precipitarono mentre questa volta era la madre a cercare la sua mano. Si svegliò di soprassalto, qualcuno bussava insistentemente alla porta, ebbe solo il tempo di spalancare gli occhi per vedere la madre, entrare come una furia nella sua stanza e scagliarsi contro di lui, riempendolo di schiaffi ma questa volta lui non restò inerme ed incapace di difendersi, la bloccò girandole il braccio all’ indietro e poi l’ afferrò stringendole il collo, lei cercava invano di svincolarsi in quanto la sua stretta era sempre più forte e intanto le urlava: “ Uora finisti ri rù mpiri i cabbasisi, sunnu iu chi comando…”

Quando si accorse che lei stava perdendo le forze allentò la presa lasciandola libera. Lei si toccò il collo dolorante e tossendo più volte per respirare.

Lo guardò con occhi pieni di terrore e scappò via. Liborio non riusciva a credere a quello che aveva appena tentato di fare, uccidere la persona più importante della sua vita, per la prima volta si guardò allo specchio e prendendosi il viso fra le mani esclamò: “ Ma cu si addivintau? ‘ N mostro!”

E scoppiò in lacrime.

Carolina si appoggiò alla porta sconvolta, un tremore improvviso la scuoteva tutta facendola ballare… Non poteva essere accaduto, suo figlio aveva appena tentato di ucciderla, era completamente fuori controllo e poteva riprovarci. Era una scheggia impazzita che doveva essere fermata prima che fosse troppo tardi, doveva escogitare un piano per renderlo innocuo.

Mentre pensava al modo come fare ciò, le venne in mente che la tata Munidda, un giorno le confidò che c’ era un’ erba capace di provocare delle allucinazioni per un periodo molto prolungato, le aveva detto: “ Devi sapiri chi ci sunnu erbe potenti chi ti fannu vì riri cosi chi nun ci sunnu, ù mmire (ombre), morti, cosi chi si muovono, ti fannu siè ntiri vuci chi ti ciamanu, ma e stari accorta ri quantu ni mì etti si no u viaggiu jè sì enza ritornu…”

Carolina incuriosita chiese come si chiamasse e dove la si poteva trovare ma Munidda rispose: “ Eh Bì edda mo, i sicreti hannu ristari secreti.”

E non aggiunse altro.

Non restava che andare al vecchio mulino e rovistare fra tutti quei vasetti e pozioni che la tata teneva in cucina, per le persone che andavano da lei a chiedere aiuto. Conosceva bene la strada quindi avrebbe potuto benissimo andare da sola.

Anche Don Vincenzo si era accorto che Liborio era ritornato, cosicchè mandò Cicca a chiamarlo. La vecchia governante bussò, e dopo un po’ venne ad aprire Liborio, il suo aspetto era orribile, faceva paura, non solo per il viso abbruttito dalla malvagità ma quello che maggiormente la inquietava era lo sguardo allucinato.

Liborio vedendola esclamò: “ Cu ccè?”

“ Don Lenzo vi voli parrari, jè sutta.”

L’ uomo senza replicare prese dal cassetto qualcosa e se la mise in tasca e poi andò ad affrontare anche il fratellastro. Lo trovò di spalle che guardava fuori, c’ erano due nuovi puledri che si ricorrevano felici fra l’ erba, era bello vedere quanta energia avevano e la loro bellezza. Non lo degnò nemmeno di uno sguardo e rimase a contemplare fuori, poi dopo alcuni minuti che sembrarono un’ eternità disse con una voce grave: “ Allura Liborio, comu facisti pi farti mì ettiri pi gaggia, iu ti canù sciu ri anni e nun facisti mai nenti ri cui potermi affruntare (vergognare) ri tia e ù ora chi ti succedi?”

Liborio avrebbe voluto sferrargli una coltellata al cuore come aveva fatto con Totuccia invece si controllò rispondendo: “ Jè ‘ n paì si ri mmedda, haju sulu bì vutu quà lchi bicchì eri ri vinu e iddi mi hannu ruttu i cabbasisi…”

Il barone si voltò e lo guardò dritto negli occhi, non si fidava più del buon Liborio anzi più passavano i giorni e più si rendeva conto di aver vissuto accanto ad uno sconosciuto.

Gli disse: “ Otinni a controllare i stalle, sunnu dui jorna chi manchi.”

Liborio ubbidì e disse sottovoce: ” Chista jè l’ ultima vù ota chi mi comandi, u giuru.”

Carolina ripresosi dallo spavento, uscì di casa cercando di non farsi vedere e si incamminò verso il vecchio mulino che non distava molto dalla tenuta, era il primo pomeriggio e non c’ era anima via, tutti a quell’ ora erano in casa per il gran caldo ma lei si guardava ugualmente intorno, non voleva dare spiegazioni a nessuno nel caso fosse vista entrare nella casa di Munidda.

Al cancello c’ erano ancora appesi i suoi talismani contro il malocchio, il giardino abbandonato era invaso dalle erbacce ormai secche, ma nonostante non ci fosse nessuno ad accudirle c’ erano le sue galline che razzolavano trovando da mangiare chicchi di granturco e altro semi sparsi dappertutto. Con molta facilità aprì la porta che era stata chiusa semplicemente con un paletto di legno. La casa era nel più completo disordine, Carolina disperò di poter trovare quello che cercava, ma entrando nella cucina, dentro un’ antica dispensa c’ erano tanti vasetti in cui la tata teneva le sue erbe. Su ogni ognuno di essi era visibile il nome di ciò che conteneva e su alcuni era riportato anche a cosa servisse. Li guardò tutti uno per uno senza trovare ciò che cercava, ad un tratto la sua attenzione si spostò in basso, in uno scaffale nascosto, c’ erano altri contenitori, fra questi finalmente ne trovò uno su cui c’ era scritto: ” U viaggiu…” ed il nome dell’ erba: mandragora.

Era un’ erba dalle connotazioni quasi mitologiche, si utillizzava per lo più nel Medioevo, quando si riteneva che avesse caratteristiche magiche ma a quanto pare veniva utilizzata anche adesso. Era ciò che stava cercando, nascose il vasetto sotto lo scialle di pizzo e non si attardò di più, diede un ultimo sguardo in giro e poi allungò il passo verso casa.

Intanto meditava a come poteva farla mangiare a Liborio, poi le venne in mente che per il suo aspetto poteva essere scambiata per borragine, un’ altra pianta usata in cucina, era capitato molte altre volte che alcune persone l’ avevano mangiata per errore, incorrendo così in delle vere e proprie intossicazioni, se non addirittura nella morte.

Nella sua mente contorta voleva somministrarre al figlio una quantità necessaria solo per farlo sembrare impazzito e quindi rinchiuderlo presso un manicomio.

Giunta a casa trovò il figlio che stava chiudendo nella stalla il suo cavallo, le si avvicinò e gli disse: “ Figghiu mo, ti capisciu, sunnu stata trù oppu sarvaggia, haju pirdutu a tì esta puri iu, ti pirdunu e tu pirduna a mia.”

Liborio si inginocchiò davanti a lei e baciandole le mani ripetutamente dicendole: “ Iu sunnu ‘ n figghiu tintu, ma Diu u sapi quantu beni vi vogghiu…” Lei: “ Isati (alzati) prestu, ci po’ è sseri quarchi unu chi ci talia.”

Poi continuò: “ Stasira ti fazzu a vurrania (borragine), l’ avi attruvata intra la terra, accussì mi fazzu pirdunari…”

Dopo mentre lui dava da mangiare la biada ai cavalli, lei entrò in casa e chiamò Cicca.

La donna accorse subito e chiese: “ A signura mi avi ciamatu?”

La marchesa: “ Stasira vogghiu cò ciri iu a vurrania pi Liborio, chi jè statu tantu bonu cu mia… ma jè pocu e nun abbasta pi tutti… pi nuatri navutri mmeci fai a caponata di pisci spada, capisti?”

Cicca: “ Comu cumannati…”

La governante era sempre più confusa, le sembrava strana la richiesta della marchesa, tuttavia sapendo che Liborio era figlio suo, poteva anche starci il fatto che volesse cucinargli qualcosa che gli piacesse. Ciò nonostante si dava dell’ incapace per non aver avuto ancora il coraggio di parlare con il barone dei suoi dubbi. Quello che la tratteneva era soprattutto la sua riservatezza, le avevano insegnato che la servitù deve stare sempre al suo posto e non deve in nessun modo impicciarsi delle faccende dei signori. Lei doveva fingere di non vedere, né sentire…

Più tardi, Carolina e il nipote seduti al lungo tavolo, si accingevano a consumare la cena, mentre Liborio, com’ era sua abitudine, stava cenando nella cucina.

La marchesa aveva dosato bene la quantità della mandragora, doveva solo provocare confusione e alterazione, non la morte.

Anna Rossi 28/07/2021 14:50 1 693

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.


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«Bellissimo questo nuovo racconto... Quando si pensa di arrivare all’epilogo, la brava autrice, con maestria e fantasia, riesce ad arricchire il romanzo con nuovi colpi di scena... Un racconto che lascia la porta aperta a nuovi gialli... Liborio, fratellastro del barone e figlio della marchesa Carolina, che fine farà dopo la cenetta preparata dalla mamma? Perderà veramente il senno?»
Giacomo Scimonelli

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