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Cesare Angelini e il Ticino e L’ elegia del Ponte rotto Difficile dire quanti siano i riferimenti e le citazioni, negli scritti letterari e nella corrispondenza epistolare con i suoi amici, di Cesare Angelini, sacerdote, poeta, critico, letterato, al fiume Ticino. Parlando di Pavia scrisse:” A Pavia, la luce trova il suo condensatore o cassa di risonanza nella presenza del fiume. Privilegio delle città che nascono e crescono lungo le acque è quello di rispondere al richiamo della luce; e il Ticino, che è il primo ad accendersi e l’ ultimo a spegnersi, si beve da millenni tutte le nostre aurore e i nostri tramonti. Un giorno, se mi prenderà l’ estro, vorrò farci su qualche componimento poetico.” Non risulta che poi lo abbia fatto a differenza di quella bella pagina dal sapore decisamente poetico scritta sull’ Adda in uno dei tanti suoi magistrali commenti ai Promessi Sposi dell’ amato Manzoni. Sul Ticino allora sono i suoi riferimenti asettici e “ anonimi”? Per nulla come vedremo anche se alcuno, non si sa perché, è giunto a dire che Monsignor Angelini non amasse il Ticino. Dubbi in tal senso parrebbero sorgere ad una lettura frettolosa della lettera scritta il 12 gennaio 1923 a Giuseppe Prezzolini:” Non ha voglia, Signor Prezzolini di spingersi sino a Pavia? Con alcune dolci lentezze provinciali, l’ aspettano basiliche stupende con gallerie che salgono ad archetti interzati come le rime di Dante verso Il Paradiso. E ci sarebbe il caso, entrando da Porta Santa Giustina, di imbattersi in Petrarca, ospite dei Visconti e un poco invecchiato, caracolla s’ un cavallo candido più che neve per consolarsi di Laura salita da un poco in Paradiso. E poi c’è il Ticino… tutto un compasso insomma.” Di fatto il Ticino è lasciato per ultimo come una appendice ma non è cosi: qui prevale lo spirito del critico letterario tenuto conto del dotto interlocutore. Ticino che sarà però reso vivido negli anni della tarda età in quella intervista impossibile:” La confidenza dei pavesi col fiume è raccontata dai cronisti di ogni tempo, cui s’ aggiungono le testimonianze dei pittori. Insomma, una città di barcaioli e pescatori, mentre sull’ altra riva del Ticino le lavandaie del Borgo, sbattendo alle- gramente camicie e lenzuola, aiutavano il folclore” In questo suo sfogo sul l’ aver nel tempo mutato in via un vicoletto e legato ai ricordi della presenza in Pavia di Ada Negri bello quasi poetico è il rimando ai sassi e al materiale fluviale usato per la costruzione dei muri di alcuni palazzi patrizi nei quali, a suo dir, risuona ancora il brusio delle onde del Ticino scrive:” Perché abbiano chiamato via quello che fu sempre vicolo — Vicolo Foromagno — ufficialmente « legalizzato» da un decreto del 14 novembre 1788, col quale l’ I.R. Governo austriaco approvava la nomenclatura delle contrade, vicoli, piazze e corsi della città, compilata dallo storico Siro Severino Capsoni; e poi, come via, l’ abbiano proprio dedicata ad Ada Negri, che prediligeva i vicoli dove le pareva di trovare meglio il cuore di Pavia, bisognerà domandarlo al Sindaco che approvò questa decisione in una seduta consigliare del novembre 1961. Ma questa è polemica; e il vicolo resterà sempre vicolo per la sua insopprimibile struttura di vicolo. Il vicolo, dunque, gira piamente attorno al lato destro della chiesa dei frati di Canepanova, cara alla pietà della poetessa quando viveva tra noi. Non occorre avere molti anni per ricordare che prima della pavimentazione in luttuoso asfalto che ora l’ opprime, c’ era un allegro selciato con le due guide che ne aiutavano, per così dire, la linea in continua curva. Comunque, certe sue penombre in cui si mescola l’ eco del vecchio nome, contribuiscono a creargli dentro e dintorno un’ atmosfera di antico indistinto. Entrandoci da piazza Municipio, il lato della chiesa muove un bel gioco di quinte tra i robusti contrafforti in rosso mattone e il campaniletto quadrato, puro come un « fioretto». Dall’ altro lato, il muro scalcinato del palazzo Bellingeri scopre, in un’ alternarsi di mattoni e di sassi, il modo di murare nel Settecento, utilizzando il materiale a portata di mano in una città fluviale.”: ” Un giorno che vi passavo in compagnia della poetessa, guardando il muro, le dissi un poco scherzando: « Se accosta l’ orecchio a uno di quei sassi, vi sente dentro ancora il brusio delle onde del Ticino da cui furono cavati». E feci l’ atto di accostarlo. Scoppiò a ridere, esclamando: « Ma tutto il vicolo è ora pieno di quel brusio...»” Ha voluto essere sepolto a Torre d’ Isola paese a lui caro per i tanti ricordi ed affetti familiari e di cui scrisse a suo tempo come nacque (Dal giornale cattolico “ Il Ticino” del 26 luglio 1969): “ La prima notizia di Torre d’ Isola, che ce ne racconta la nascita e spiega il nome « fluviale», risale al Mille o giù di lì; quando la Lombardia era sotto il dominio di Re Ottone e della Regina Adelaide, che risiedevano in Pavia. Pare una favola tant’è bella. Dice che ogni notte, partendo dal ponte, solcava le acque del Ticino una barchetta guidata da un lume e, dopo alcuni chilometri, approdava a una piccola isola poco lontana dalla sponda. Vi calava una donna che si raccoglieva nel bosco, rimanendovi fin verso il mattino quando tutto spariva, il lume e la barca.” Ora, vuoi per caso o per amorevole destino, poiché Torre d’ Isola si trova nel Pavese occidentale e si estende lungo la riva del Ticino piace immaginare che il fiume poco distante dal luogo dove riposa Don Cesare con il suo continuo lento scorrer mormorio voglia cullare il suo eterno sonno. Nel narrare dei giorni del Foscolo a Pavia il Ticino è nominato di fretta quasi distrattamente:” E al Ticino, al non ancora « varcato» Ticino, giunse da Milano, in legno, la sera del 1° dicembre, ch’ era un giovedì…” E poi riferendosi sempre al Foscolo:” Intanto Pavia riempie le sue lettere, anche se guardata con un senso di disagio. All’ Arrivabene, il 21 ottobre dà notizia d’ una rapida corsa che vi ha fatto: « Sono andato a Pavia ad apparecchiarmi la prigione e ad onorarla». Al Pindemonte: « Io andrò a Pavia all’ apertura dell’ anno scolastico, non prima». Al Brunetti: « Non penso a Pavia senza vedere nell’ Università mille accusatori giusti contro di me, senza udire mille maligni esagerati. Ma, caschi il cielo ad opprimermi, non verrà dicembre senza ch’ io non mi trovi a Pavia». Al Monti: « Io vo dì e notte pensando come provvedere alla mia traslocazione in Pavia». Al Giovio: « Al conte Giulio scriverò quel giorno ch’ io moverò verso il Ticino». E qui è invece il Foscolo a nominare con un certo senso di disagio il Ticino. Con nostalgia e pare anche con un certo senso di rimpianto per i tempi passati riappare il nome del Ticino assieme a caratteristici personaggi nel Diario del Novecento a cura di Luciano Simonelli:” Ma i rimpianti di Cesare Angelini scompaiono al ricordo di alcuni personaggi caratteristici della Pavia di un tempo e sta parlando di loro quando arriviamo in piazza Borromeo:” C’ era il professor Balanzone. D’ estate portava il cappotto come d’ inverno e andava sempre in giro a raccogliere giornali… poi il professor Peo che sul ponte del Ticino vendeva i “ brassadè”, dei dolci…” In “ Conoscere la provincia”-Panorama del Pavese il suo scrivere è un inno d’ amore per Pavia e indirettamente per il suo fiume:” Poniamo, questa mia provincia, che sulla carta geografica della Lombardia presenta la forma stravagante d’ un triangolo con la base in su e il pizzo in giù; con una capitale che non invecchia perché antica (antica capitale di regni) e un contado così prosperoso di vita e di opere tutte al vento e al sole, che ogni giorno qualcuno rinnova il gusto d’ esserci nato contadino. Ma smorziamo ogni tentazione di lirismo, e parliamo con calma di questa provincia che, fatta di sindaci e parroci e d’ un mezzo milione di anime, è naturalmente quella di Pavia. La quale, come la Gallia di Cesare, divisa est in partes tres. Quarum unam..., anzi due — il Pavese propriamente detto e la Lomellina — sono le parti soprane del triangolo; la terza o parte sottana, è l’ Oltrepò. Maravigliosa provincia che, al nord, scappa verso i fiumi — il Ticino e il Po — con la sua pianura di praterie, di boschi, di marcite, di risaie e rogge e nebbie basse; e, al sud, sale coi festanti filari dei suoi vigneti verso i dorsi dell’ Appennino.. Al capoluogo, Pavia, basti aver accennato. Descriverlo, il discorso sarebbe trattenuto nella soggezione delle Guide vecchie e nuove, a cui ben poco c’è da aggiungere, o nulla; fuorché l’ ammirazione per la città regale che intreccia il superbo capriccio delle sue torri medievali alla sapienza delle basiliche e alla maestà bonaria del suo fiume nel momento più bello. E par sempre una memoria poetica la notizia che il paese di Bereguardo sul Ticino ospitò nel suo castello un pittorone come Filippo Brunelleschi, chiamatovi da Firenze per certi restauri.” In Carta, Penna e Calamaio ecco come trascrive e mi invia un suo pronipote il Dr. Fabio Maggi: ” Così dunque io scrivo, con la penna che scivola via come un olio. Fin che, colmato il foglio, l’ asciugo con la sabbiolina dorata cavata dal greto del fiume che mi gira dietro casa, nei giorni di magra, che vi scendo coi fanciulli del luogo.” Dalle pagine poi di una ricerca letteraria sempre del Dr. Fabio Maggi merita di ricordare quanto Cesare Angelini scrisse, sul bel fiume, in due belle dediche autografe al poeta dialettale Angelo Ferrari:”« Al caro amico Angelo Ferrari / queste paginette nate e cresciute / presso le sue vivaci conversazioni / sulla strada di Torre d’ Isola, sempre / in vista del nostro bel fiume / Il suo Cesare Angelini / Pavia genn. 1924». Nel darne una collocazione in spazi, in luoghi, Cesare Angelini, con questa dedica, fa omaggio di una copia della sua prima opera, Il lettore provveduto (Il Convegno, 1923), all’ amico carissimo e poeta in lingua e in dialetto Angelo Ferrari. Nel gennaio 1998, Baldassare Ferrari, figlio di Angelo Ferrari, ricorda: « Mio padre, di buonora, da Pavia, dove abitava, si recava in bicicletta a Torre d’ Isola e, con Angelini, a piedi, tornavano in città, al Morandotti un caffé, e poi l’ uno in Seminario a insegnare, l’ altro alla Congregazione di Carità (via Orfanotrofio), dove mio padre era ragioniere».Anni ’ 20: le pagine di Angelini nel raccogliersi per la prima volta in volume, muovono i loro passi sulla stradina di Torre d’ Isola e, per naturale estensione del titolo del libro, si alimentano nel confrontarsi di due lettori singolarmente provveduti. Sempre nel 1924, Angelo (’ Ngiulin) Ferrari pubblica presso il Circolo di Coltura Alessandro Manzoni di Pavia il suo terzo libro in versi, Un bris ad ciel, curato e con prefazione (Parlata d’ introduzione) di Angelini. Nelle parole di Angelini si incontrano i luoghi delle comuni passeggiate: « La penombra de’ [...] boschi che risalgono il bel fiume pescoso ricco d’ acque chiare e di vibrazioni d’ argento, sfumando contro il cielo perlaceo di Torre d’ Isola — l’ isola dei mughetti — o, più lontano, di Zelata rossa». Nei versi del Ferrari sono spesso ricorrenti le albe, le prime ore del giorno, quando « gh’è in gir al Spirtusant», quando « la belesa la nassa cun l’ Aurora», quando « dopo una bè la not ad sogn rident / rumanza inverosimil no finì / cla s’ interompa col sbagagiament / a l’ alba nivulà in sal fa dal dì / mi pensi cume un bataglion d’ imagin / a vul ch’ i va me ’ l vent in sl’ aria grisa», quando l’ angelo di nome si muove verso l’ angelo di cognome, e insieme vanno in cerca di quei « bataglion d’ imagin», leggendoli nei campi, nelle acque, nei cieli, per poi scambiarseli, ritornarseli, e (de) scriverli. Torre d’ Isola vista come « isola dei mughetti», pare, e forse è, un loro ricorrente (e singolare) vederla e chiamarla. Momenti che restano indelebili nella memoria del sacerdote pavese che, nel 1968, pubblicando Notizia di Renato Serra (Rebellato), a circoscrivere un quarantennio di sua partecipazione alla letteratura, e quasi avendo sotto gli occhi quella lontana dedica del 1924, nel donare una copia al Ferrari scrive: « Caro Ferrari, caro e grande / Amico, accolga questa / Notizia di Renato Serra; un / nome che facevamo tanto / spesso e volentieri, quaranta e / più anni fa, nelle nostre / belle passeggiate sulla bella strada / di Pavia - Torre d’ Isola, e viceversa. / Cordialmente suo / Angelini / Pavia, 9 dic. 68». La notizia, le notizie letterarie sono (anche) nate, e temporalmente ritornano, dal recapito di Torre d’ Isola, si muovono per quella strada, sulla quale il filo della memoria le ripesca, e il Ticino le rinnova. La letteratura di Angelini, la sua poesia, è più vera, più intimamente vera, se incontrata per quei promontori, dove è la sua linfa vitale, il suo domicilio.” Anche nella “ Lombardia di Carlo Cattaneo” dove “… assistiamo alla nascita di questa nostra terra che, collocandosi tra il Piemonte e la Venezia sorte per opera d’ altre eruzioni, entra, sotto il sublime arco delle Alpi, nel panorama settentrionale, « quasi adempiendo un disegno unitario della natura». Così, tra il Verbano e il Ticino da una parte, il Benaco e il Mincio dall’ altra, corsa da giovani fiumi e dal poderoso Po che la lega all’ Adriatico, sparsa di laghi che ne specchiano la bellezza, ricca di mirabili attitudini d’ aria e di cielo, la Lombardia, che ancora non si chiamava così, preparava il destino agricolo del popolo che doveva abitarla. « Poiché in ogni parte del globo giacciono predisposti gli elementi di qualche grande compagine che attende solo il soffio dell’ intelligenza nazionale” il Ticino “ giovane fiume” da il suo contributo gioioso alla nascita di “ questa nostra terra”! Chiudiamo questa nota riportando quando scrive nel suo “ Andar per chiese”: ” Visita San Lanfranco. È la basì lica più visitata dai forestieri, anche per il posto poetico dove sorge: sul Ticino, fra campi e alberi e balli campestri…..La facciata, come la massiccia torre quadrata che le sorge a fianco, è del secolo XIII e, divisa in tre campate verticali, è sparsa di tazze o scodelle iridate che riflettono il sole quando tramonta nei boschi del fiume. Ma tutta la facciata ha indelebilmente sopra di sé i colori bruciati dei tramonti” Non si respira forse in queste poche righe aria di poesia? Una sua poesia sul Ticino? Non risulta scrissi all’ inizio di questa nota ma ora che cosa è se non pura poesia la sua “ Elegia del ponte rotto” del Ticino seppure in prosa che il Dr. Fabio Maggi ha avuto la bontà e la cortesia di inviarmi (copia di questo pregevole scritto e redatto in bella e nitida calligrafia dallo stesso Angelini nel 1949)? L’ Elegia fa riferimento al bombardamenti elle forze alleate che nel settembre 1944, durante la seconda guerra mondiale, danneggiarono l’antico ponte trecentesco e ne fecero crollare un’arcata. Alla fine della guerra si svolse un aspro dibattito sull’opportunità di ripristinare il vecchio ponte o di demolirlo. Per timore di crolli che avrebbero potuto far straripare il Ticino, nel febbraio 1948, il Ministero de Lavori Pubblici fece demolire con la dinamite l’antico manufatto. Alcuni resti dei piloni del vecchio ponte sono visibili nelle acque del fiume ed è rimasta anche la base del portale. Nel 1949 si iniziò la costruzione del nuovo ponte, che fu inaugurato nel 1951 . Sul portale d’ingresso dalla parte della città un’epigrafe cita: "Sull’antico varco del ceruleo Ticino, ad immagine del vetusto Ponte Coperto, demolito dalla furia della guerra, la Repubblica Italiana riedificò. Dell’ Elegia se ne riportano qui solo alcuni stralci perché merita di essere oggetto nella sua interezza di un saggio esegetico a parte! “ E’ lì, da due anni, costernato nella sua sofferenza drammatica, nel silenzio improvviso delle sue arcate; ma con uno strano pudore d’ esser guardato, come ogni bellezza devastata. I suoi diritti sono quelli dei mutilati, dei grandi mutilati di guerra, che vanno assistiti, guariti, rifatti. Se no, è una ingiustizia in terra e in cielo. Ma ha pazienza; nella sua maestosa stanchezza di rudere, dà tempo al tempo. Sa che un ponte non si rifà in un giorno e in una notte, a meno d’ affidarne la costruzione al diavolo come i vecchi favoleggiavano di lui, ma lui non vuole. Era, nei secoli, il motiv lirico della nostra città; il suo volto, la sua distinzione; il simbolo nella geografia e nell’ arte. Era la firma di Pavia. Un ponte coperto s un bel fiume, non è cosa di tutti i giorni né di ogni città. C’è il ponte di Bassano, il vecchio ponte di Firennze, ma il nostro che era il terzo e basta (“ i ponte dei sospiri” è un’ arcata tenuta su dagli innamorati&rdquo li batteva tutt’ e due per imponenza e figura. E quelle cento colonne di granito che ne sorreggevano il tetto, se nelle notti di luna gli davan lievità di sogno di visibile favola, di giorno creavano una balaustra di freschezza per i poveri che vi sostavan volentieri.” ………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………………… | |
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I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.
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