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C’era una volta la Befana

Amore

C’ era una volta la Befana dei bambini felici con nulla o con poco.

Ecco, detto così sembra una favola, invece è solo il luccichio d’ un ricordo e della nostalgia pungente del giorno magico dell’ Epifania, visti con gli occhi di una bambina ma con il rimpianto d’ adulta, una adulta che oggi si smarrisce di fronte alla inespressività con cui i ragazzini scartano i giocattoli, li guardano, per poi abbandonarli in un nano secondo e tornare davanti ai video giochi, o peggio davanti al televisore. Sparita l’ attesa, profumata di magia e trepidazione, tutto si veste di superficialità, qualcosa che diventa dovuto e non meritato.

Nei primi anni ‘ 60 ero poco più che una bambinetta e, come tutti i miei coetanei, sognavo ad occhi aperti, e poiché la televisione era solo per pochi fortunati, le pressioni pubblicitarie erano ridotte al minimo. Come fare allora per sapere le novità? Semplicissimo, si ricorreva alla visione diretta, ovvero al giro nel negozio di giocattoli del mio quartiere, l’ unico del resto, che forse in virtù delle mie minute proporzioni mi sembrava il regno di bengodi, così grande e pieno di scaffali stipati all’ inverosimile da bambole, carrozzine, trenini, burattini, costruzioni, cucinette e minuscole pentoline, Pinocchi dai colori sgargianti, tamburi e pianoforti in miniatura.

Alcuni giochi, pionieri nel loro genere, avevano già la luce, funzionante grazie alle batterie, o con la presa di corrente. Lontani mille miglia dai giochi elettronici, avevano però un fascino tutto loro, centuplicato dal valore dell’ attesa, e dalla gratificazione d’ essere stati davvero buoni se arrivava quello che si era adocchiato. Infatti i bambini compivano, per mano ai genitori, una sorta di ricognizione, e quando gli occhi s’ illuminavano, mamma e papà capivano che quello era l’ oggetto del desiderio, con uno scambio veloce di occhiate col negoziante e con un “ andiamo a scrivere alla Befana l’ indirizzo del negozio così lei passa a prenderlo”, ci si congedava. Il negoziante capiva al volo, tanto ormai i clienti erano sempre gli stessi, affrettandosi nel retrobottega a riporre il gioco con tanto di nome sopra.

Com’ era bello tornare a casa, saltellando per la via, la mano nella mano a mamma e papà, descrivendo ancora quella meraviglia appena intravista, in un cicaleccio continuo e gioioso, e il sorriso increspato agli angoli della bocca dei miei, che sghignazzavano soddisfatti, ma questo l’ ho capito solo anni dopo, per quell’ ingenuo pregustare la cucinetta, la bambola, o quel certo trenino che mio fratello pensava già di veder correre nel corridoio di casa.

Così facendo però entrambi abbiamo capito il loro insegnamento, il perché si scegliesse una cosa e una soltanto; per un bimbo piccolo la scelta non è facile, nei suoi occhi leggi gioia e un pizzico di delusione nel dover decidere tra tante meraviglie. Ma la legge era quella e senza deroghe, “ la Befana ha tanti bimbi da accontentare” ci ripetevano, e con questo ci hanno insegnato la condivisione, la generosità con chi ha poco o addirittura niente, consegnandoci l’ antidoto contro l’ egoismo.

Dunque dicevamo, fatta la scelta bisognava aspettare, pazientemente, preparandosi all’ evento con tutta l’ obbedienza possibile, senza far capricci, finendo il pasto senza far disperare nessuno, comportandoci bene a scuola.

Arrivava nel frattempo Natale, e con esso il batticuore lievitava come un fragrante panettone, col quale ci ingozzavamo felici. Ovviamente a Natale non si riceveva nulla, tranne l’ abbraccio di mamma e papà, il loro bacio e un buon pranzetto con i parenti più stretti.

Passavano i giorni e si arrivava alla vigilia dell’ Epifania con un rituale da rispettare. Noi ne avevamo uno particolare frutto della fantasia bonaria e sorniona dei miei.

Innanzi tutto la sera precedente si cercavano i calzini più belli, magari nuovi, ma soprattutto più lunghi. Ogni anno la genialità era quella di sostituire i nostri calzini, con quelli scovati nel cassetto di mio padre, ovviamente molto più capienti, cosa di cui mamma e papà erano coscienti, pur fingendo ogni volta di rimanerne sorpresi.

Si raccontava che la signora Befana fosse una vecchina molto povera e soprattutto molto affaticata dal giro che doveva compiere nella notte delle magie, così la chiamavo da piccola, per andare a far visita a tutti i bimbi del mondo; che strana cosa era mai questa, ma come poteva la Befana far visita a tutti i bimbi del mondo in una notte, visto che noi per andare dagli zii a 700 km di distanza con il treno ci mettevamo 8 ore? Come faceva a far su è giù per i comignoli, ad aprire e chiudere tante finestre, a diventare invisibile e poi visibile, ad andare a cavalcioni per tutto quel tempo su una scopa malconcia, col freddo, con la pioggia, con la neve? E poi quella lista pressoché infinita di indirizzi, di desideri da spuntare, senza una nota scritta era davvero un guaio ricordare quello che ogni bambino aveva visto e prenotato, quindi ne deducevo che la Befana doveva avere una memoria a dir poco strepitosa. E noi che ci lamentavamo delle tabelline e delle poesie a memoria!

Ecco, giustappunto la memoria. In fondo, ragionavo, la Befana era una vecchina, magari col tempo qualche piccolo cedimento le avrebbe potuto far dimenticare qualcosa, forse il nostro indirizzo. I miei zii a 70 anni erano già sordi, ci vedevano poco, e mi chiedevano cento volte le stesse cose; la cara nonnina per quanto arzilla, mi dicevo, avrà a dir poco 200 anni, quindi secondo il mio giudizio critico di bambina doveva essere molto più rimbambita. No, assolutamente non potevo correre questo rischio, e così discutendo e parlottando, papà, che sicuramente sotto i baffi avrà riso come un matto, escogitò uno stratagemma, affinché la povera vecchietta non potesse mai più dimenticare l’ indirizzo di casa nostra.

La sera precedente dunque ci invitava a mettere tutto in ordine in cucina e sul tavolo, sul quale pulito e riassettato a dovere, si apparecchiava appositamente per lei con tovagliolo, bicchiere, posate, lasciando in un piatto la cena già pronta, ed io che ero molto generosa e, lo ammetto, molto interessata, aggiungevo frutta secca, un pezzetto di dolce, una caramella, così da essere sicura che la mia amata benefattrice rimanesse contenta, e, chissà, intenerita sganciasse qualcosa in più.

Appese poi le calze alla cappa della cucina c’ era un particolare importantissimo da non dimenticare. Non possedendo il caminetto, ma solo una grande finestra, la poverina avrebbe dovuto sfondare i vetri con un gran fracasso per entrare, rischiando di farsi male, quindi per agevolarle la discesa e la planata con tanto di scopa e sacco al seguito, si lasciavano appena schiuse le ante, si chiudeva la porta perché la Befana non amava farsi vedere e via di corsa a nanna.

Confesso, non dormivo granché, sussultando spesso per una strana dolcissima agitazione e sperando che il sole filtrasse presto dalle persiane. Com’ era bella l’ attesa, mi giravo nel lettino gongolando, aspettando che il sole facesse capolino tra le imposte, e bussando coi suoi timidi raggi mi dicesse: “ Svegliati, è l’ ora!”

E quando l’ ora finalmente arrivava il timore della delusione era tanto, l’ inquietudine cresceva, magari c’ era una marachella fatta qualche giorno prima che macchiava la coscienza, e poi una vocina in fondo in fondo sussurrava “ E se si fosse persa? E se si fosse rotta la scopa? E se avesse scambiato per la fretta la tua scatola con quella di qualcun altro?” Insomma il grillo coscienza faceva a dovere il suo lavoro, e l’ ansia saliva come panna montata, finché la voce di mamma che chiamava dalla cucina dicendo “ Bimbi ma non correte a vedere cos’ ha lasciato la Befana?” ci faceva lasciare il tepore del lettino e saltellare per il corridoio con un fracasso infernale e somma gioia dei vicini di casa.

Il momento più bello era quel tenero sbirciare la soglia della cucina, e vedere con quanta fantasia la signora Befana l’ avesse messa a soqquadro. La signora aveva gradito la cena, il tovagliolo appena spiegazzato, le bucce della frutta graziosamente confuse tra le posate. Anni dopo capii che la cena della befana se l’ era mangiata papà immolandosi alla causa, mentre le bucce di frutta erano le superstiti di quella consumata la sera precedente.

Ma all’ epoca questo non poteva certo passarmi per la testa, a me interessavano quei calzini rigonfi e quei bellissimi pacchetti sul tavolo.

Nei calzini la graziosa nonnina lasciava caramelle, cioccolatini, mandarini, noci e nocciole, ed un pezzo di carbone per insegnarmi le buone maniere.

Sul tavolo attirava la mia attenzione un pacchetto colorato, con l’ indicazione del destinatario, che ai tempi dell’ asilo mi facevano la grazia di leggere al posto mio. Com’ era bello prenderlo, sfiorarlo, attendere ancora un po’ a slegare il laccetto e togliere la carta, quasi a prolungare quel senso d’ infinita contentezza.

Poi pian piano, così come si fa con le cose preziose, lo aprivo. E sorridevo. Mi ricordo le ultime due epifanie, avevo 7 e 8 anni, e in dono ricevetti una di quelle prime bambole con un corredo di vestitini, e l’ anno successivo un frigo con la luce che si accendeva aprendo lo sportello.

Fu l’ ultima befana, l’ ultima notte di magia. L’ infanzia durò lo spazio d’ un soffio di vento, e finì una mattina di novembre. Nonostante il trambusto, la befana arrivò ugualmente, ma ormai sapevo che non esisteva e che sarebbe stata la mamma a provvedere, ma quello che mi feriva era la certezza che non sarebbe mai più stata la stessa cosa, che non avrei avuto mai più la cucina apparecchiata ed imbandita, ma soprattutto che non avrei avuto più papà a sorridermi sornione ed a finire la cena al posto della Befana.


Franca Canfora 23/05/2018 20:21 862

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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