Gobba di luna maltrattata,
un dio che la nega, lega un fiore di sangue,
passo nudo sulle schegge del cielo,
e i santi chiudono a punti e ad ago
gli occhi dei malori oltre la cima
il bianco dei semi e degli orti.
Gobba di luna solitaria,
dimmi del pastore che ti ha lasciato
l’est e le montagne, il silenzio e
il mondo e le donne dell’amore.
Gobba di luna, luce sulle gote
scende lenta come la pioggia densa
come stoffa di raso rossa.
E c’è una scala, dopo i binari,
dopo la sterpaglia della ferrovia,
un filo, uno solo,
oltre la vecchia stazione
e nebbia è la tempesta
che non riesce – non può –
far piovere, lacrime
dallo scrigno, in un cammeo
senza chiave né ritratto.
Senza segreto le hanno detto
dal figlio dell’Amnesia,
le hanno preso la mano,
bianco ginocchio
oltre una gonna troppo corta.
E sale, passo e passo,
e sale, punta dopo punta,
e scricchiola, legno e suola,
buio e candela, lana e lanterna,
dove non ha fine
il binario senza treni,
dove dormono le locomotive,
cimitero di ferro, d’elefanti
grigi e di rottami,
eppure nella mano
avevo preso un po’ di luce,
luna bianca dalla sua gobba storta,
luna meravigliosa e storpia,
rubata un po’ dalla pozzanghera
lì in terra.
Eppure l’avevo, stretta
nella mano, che ora aperta
è umida se non di vuoto,
- pallida d’abbandono -. |
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- E mi abbracci tra cenere e neve –
E mi inginocchio al cospetto
del cielo e della sua cattedrale,
mattoni di pensieri e di complotti,
silenzi di baci e finti matrimoni.
- E mi spio tra i pantheon di dèi dimenticati –
E le marmoree stanze
sono vesti greche per le fanciulle,
pepli leggeri tra le gambe nude.
- E mi ingabbio le urla tra le lune –
E mi abbraccio tra quei regali tanto bramati
- cenere e neve –
Scomparse dame e spettrali mani
e tra i nitriti della notte
corrono i fantasmi con i zoccoli
tra le lontananze.
E tu,
chiudo gli occhi,
non ci sei
- non più –
cola il tuo canuto pensiero,
fiore e nettare, pioggia e tempesta,
intrappolato tra i miei capelli
consumati fili tra le idee,
maestre le vie dove le cicute
lasciano il passaggio agli avvelenatori,
un mondo corrotto del colore del vino,
ma ho il passo dei miei zoccoli
tra i fantasmi dei tuoi scacchi
che sussurrano segreti
alle orecchie dei ronzini tra le pedine,
ed io, cado,
e tu, non ci sei
- non più -:
tumore – rumore - muto schiocco
sui rimuginanti affetti odiati,
ombre bicolori
tra le mani regine,
tra le madri e le figlie,
loro disoneste cicatrici. |
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Quanta neve è caduta
nella culla delle verità,
tenute celate a chiave in un carillon
che non ha musica con gli ingranaggi di ruggine,
nel ventre materno delle allodole.
Grembo gonfio di ghiaccio
e di sangue di bambino...
Sulla pelle è già nato
con la cicatrice bianca
dell’inverno.
Quanta neve ho voluto
sui miei occhi
stesso colore delle pupille sputate
dalle scimmie di pietra
che tengono vacillante l’universo.
E ti ho visto crescere
come il figlio che non ho partorito,
sulla pelle eri già nato
con il sorriso
che non era mio.
Quanta neve
nella mia culla vuota...
Quanta neve
sulle tue spezzate dita
morse dal vento.
E io mi sento stringere
dalle mie stesse mani
il soffocato orgoglio
di una regina fatta di marzapane,
dominatrice di un bosco che dorme,
dittatrice di fantocci,
comandante di un’isola dove grandina,
colonnello del mio esercito di bambole,
silenziosa vedova delle ombre,
ingenua bambina morta tra le mie braccia...
- Unica consolazione in un pianeta di rimpianti
le lacrime dei varani dimenticati,
custodi del mio tempio
dove lingua bacia le mie candele,
custodi della mia catacomba
dove l’artiglio accarezza l’oblio. –
Quanta neve
ancora cadrà
tra la donna che si invecchia
tra le mura di un castello di ferro
fatto di terra e di urla
e il suo bambino,
guerriero delle piogge
che proteggono i rami al melo
e che difendono le tane
dal letargo dell’eterno.
E abbraccerò la neve
e la mangerò...
e gonfio il ventre
ti abbraccerò. |
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E i cristalli, lungo le nuvole
che le strade partoriscono,
lungo le case sventrate,
lungo gli ospedali deserti,
lungo i confini chiusi,
lungo le gobbe degli scorpioni
che spaventati scappano
sotto terra,
lungo le reti e le corone di spine,
lungo i fucili e i soldati.
- Madre che piange
con le lenzuola bianche
di sangue. -
E il silenzio
nel ventre
protegge il figlio
rapito dalle crocifissioni
dei treni e delle metro,
delle urla e degli aeroporti,
dei mari e delle barche,
delle fughe e della polvere,
della fame e dei mostri di carne,
degli uomini di roccia e pietra,
e le sue lacrime e le sue urla
lo salveranno...
solo quando sarà troppo tardi,
dove i piedi scalzi
umidi come il legno e la corteccia
accoglieranno tra la morte e la vita,
tra la luce e la notte,
tra le lance e le bestemmie,
tutti i suoi baci
e la consolerà
come il figlio che Lui solo sa.
- Lì, nel parco delle altalene,
lì, nel parco delle margherite...
erano bianche anche loro... -
Madre nel sangue
che lo ha baciato
ogni attimo
ogni tratto
ogni dito
piccolo
di quella mano
minuscola
sembianza di anima e di angelo,
piccolo pianeta di paradiso
da proteggere dall’inferno
e dalle catene delle false preghiere.
- Madre nel sangue
e nel riflesso
dei suoi occhi,
Suo Figlio. - |
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Come le dita, leggere,
dolci, come le bolle
di sapone, che cadono
leggiadre, sulla pelle,
tra le nuvole e i sorrisi,
tra le nebbie scomparse
e le case.
Come la neve che danza,
come la sua statua di stelle
e che di lucciole diviene
quando l’estate
si incammina scalza
sotto lo sguardo di chi la protegge,
da lontano, la madre luna.
Come la farfalla che in primavera
dischiude tra le margherite
le sue ali come petali bianchi
tra le viole e le impronte
delle rondini.
Come la foglia che si chiude
attorno alle gocce di pioggia,
piccole sfere che il cielo regala,
come un segreto da custodire,
dove il sole non potrà spiare
le ninfee che corrono
lungo i fiumi,
dove l’autunno rincorrendole
non potrà rapirle
se non prima che la natura
si raccolga la lunga chioma
da donare.
Come un raggio
che da lassù si fa derubare,
per concedere di nuovo alla terra
sua figlia,
calore per il burbero inverno,
freschezza per la curiosa primavera,
ed il nome si fa eco, dolce,
irripetibile e innamorata,
arrabbiata e ribelle,
affettuosa tra i narcisi,
tra le valli e oltre i monti,
quel nome che le fu scelto
Donna. |
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- La tua pelle, dove io ti sento,
dove io ti ricordo, dove io ti odio...
Dove io ti dimentico.
Dove io ti voglio.
La tua pelle,
dove io ti bacio,
dove io mi nascondo,
come il feto tra i fili
dei tuoi sospiri. -
Avevi tatuati tutti quei nomi.
Pensavo fossero uomini da dimenticare,
invece... erano bambini
da ricordare, uno ad uno,
ogni capello nero
aveva la missione
di nutrirti il parto
alla mente.
Avevi tanti fiori ricamati,
come le stoffe al mercato,
come le tovaglie per i dolci
appena presi dal forno.
Avevi troppi affanni,
bambina che non conosceva,
quale tra i nomi
fosse mai stata la madre
o il padre.
Conoscevi ogni tuo figlio...
Ognuno...
E lo seguivi con lo sguardo.
E lo spiavi fuori dalla scuola.
E gli sorridevi senza fartene accorgere.
Un passo leggero,
come la madre giaguaro
che bacia i figli,
lecca loro gli occhi,
prima che il cacciatore le spari. |
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- E ti ho amato
un solo attimo
per il peccato dell’eterno. –
Sulla schiena ho le cicatrici,
le fruste del mio ruggire,
e i capelli che legavo alle frecce
e al vento e al suo odore di caccia,
alla velocità delle foglie
cadute in autunno,
non sono che crine
che non mi conviene.
- E ti ho amato,
per purezza e per avidità,
per malizia e per ingenuità. –
Ho raccolto tre mele d’oro,
ho raccolto tre delle armi
al matrimonio,
ripudiata come figlia
e ripresa come sposa.
- E ti ho amato,
ad ogni schioccar dell’arco,
ad ogni scricchiolar del ramo. –
Imprigionata per amore,
a trainare il carro della regina Cibele,
salvata dall’orsa di Artemide,
punita da lei, la dèa dell’invidie,
Afrodite degli amori illusi,
e divenni metamorfosi
di libertà ruggite alle cinghie
per mano di Zeus e del mondo.
- E ti ho amato,
ruggendo ancora,
con la forza rimasta,
con la forza rubata,
risucchiata in un ultimo amore:
del tuo inganno, il figlio partorito. - |
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Luna che di cenere
guarda le luci sullo specchio
di terra, il mare non è che cielo
ribaltato al silenzio.
I bambini a mosca cieca
si bendano di lino e di sciarpa,
e ai polsi ci legano le primavere
delle adolescenze disossate.
Un suono, una campana... un soffio
come il deserto spazzato di ogni granello,
così, la mimosa infreddolita
ancora spoglia ai rami. |
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Hai gli occhi di tuo padre,
leggeri, a tratti scostanti,
a volte freddi.
Hai le labbra così di un viola
che sembri dipinta dalle primavere
di ghirlande e lavande.
Sai, quante volte ho suonato il violino,
e ti ho raccontato fiabe,
raccogliendoti tra le braccia unite,
e culla di nuovo mi trasformavo.
Sai, quante volte ho pianto...
Lontana da te.
E mi nascondevo, e avevo tra i denti le mani.
E mi torturavo, e avevo tra i silenzi uno stropicciato domani.
E ti pensavo.
Quanto di odio, mi hai ricamato,
addosso come sarta, la diffidenza
della luna che non guarda
le sculture del sole.
Quanto di assenti sguardi,
mi hai trapuntato
pallottole già usate,
per il corredo, il mio,
non più candido.
Ed io, ora,
no, non piango,
tremo,
come madre
che vede in lei
la figlia. |
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| Di lei non se ne può sentir la voce
E i canti dei bimbi,
figli di pescatori,
cantano ancora le filastrocche
perse tra i laghi delle nebbie
Madri mai conosciute
come illusioni di lacrime
dalle foglie del cielo
Paludi d'argento
a dondolar
ninne nanne
Voci di farfalle di fiori
schiusi boccioli di notte
a portar lucciole
sul viso dei neonati
Miraggi d'ombre
come i nèi ricordati del seno
di sorrisi dai baci
d'occhi dalle palpebre delle conchiglie
dalle dita delle campanule
papaveri rossi le labbra
Polpastrelli senza unghia, sulla culla
afferrai i suoi capelli
e l'odor di latte
sfiorò le mie lacrime. |
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