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Colonia

Ragazzi

Colonia.

La notte senza stelle, nessun diamante brillava nel cielo in quel tempo.

Adunata innalza bandiera, saluto alla nazione, a nanna nello stanzone buio. Poca luce di luna illuminava una piccola striscia del pavimento nell’ ombra della camerata facendomi compagnia, e perché no, sognare... Nessuna storiella, niente rimbocco di coperta da parte delle lavoranti nella colonia penale… Navigavo con vele di dolore nell’ atmosfera dell’ abbandono, avevo otto anni, quindici giorni e un mese, due snelle, magre gambe a stento reggevano il corpo. Vestiti tutti uguali, rasati, in divisa come i militari. Senza nomi, uguali, somme di matematica, numeri e nulla più. La tazza del latte tiepido sul tavolo del refettorio:” stanzone enorme, buio, a mala pena assolato” colorata di bianco pallido mi aspettava ogni mattina puntualmente, mai, la strinsi tra le mani, mai, bevvi latte avvelenato di quel tempo nell’ atmosfera delle urla, risate, tristezze velate, rabbia nascosta, tumultuosa come l’ infrangersi delle onde del mare spumeggianti sugli scogli di più bambini. La mattina alle sette, si ripeteva la scena, il rito dell’ appello numerico, poi, nuovamente innalza bandiera, saluta alla nazione Italia, rompete le righe ... Ero una formica in mezzo a tanti bambini, di sicuro penso che altre piccole formiche si annidavano in quel formicaio, non vedevo il mondo fuori, non partecipavo a nulla, una folta nebbia di dolore mi avvolgeva, sanguinavo, ferito, mi ritiravo nella tana del silenzio, impastavo il dolore, aspettavo, filavo il momento della visita di madre fuori dal cancello. Avevo insistito tanto per andare in colonia, desiderio di volare, conoscere, navigare, scoprire, ma, le ali fragili non ressero alla prima separazione, non valutai la lama del coltello nel cuore. Piansi tantissimo, una sorda tristezza s’ impossessò della mente, tutto divenne incolore. Diventai un bambino formica, mi avvertivo fragile e indifeso, mi sentii abbandonato e solo al mondo; Mi racchiusi nella tana dell’ anima dove il sole non penetra mai con i suoi raggi abbaglianti, masticavo pensieri inbevuti d’ aceto, solo dopo pochi giorni, un tempo per me infinito, il viso angelico di mia Madre apparse al cancello della colonia, ogni piccola lampadina nel cervello improvvisamente si riaccese, tutto s’ illuminò, tutto luccicava, uscì i fuori dal nascondiglio senza paura. Pianse anche Lei al primo appuntamento all’ incontro dopo il lascito, la implorai di riprendermi da quel vasto territorio sconosciuto, ricordo che mi comprò un gelato, mi portò fuori dalla caserma, andammo alle giostre delle vita, riapparsero i colori ai miei occhi; non ricordo il ritorno alla dimora, il saluto alle mie cose, l’ abbraccio degli amici, ricordo la ferita, la smorfia del dolore, il bambino formica, la prima dolorosa separazione, il buio della caverna, il taglio del coltello, la recisione…

A cà pa ‘ e nu puzzo,

‘ a calo ‘ o sicchio,

tire fò re ‘ e pensiere!

Come una foglia trasportata dal vento,

la mia anima rotolò,

rotolò tra polvere di terra,

ruzzolò soprattutto dove la polvere

insieme all’ acqua esala al cielo

diventando nuvola e poi pioggia.

Pioggia che bagna,

che lava,

che toglie e che mette nel vasto oceano

che è la nostra anima quella pallida brezza

di fresco di nuovo, che crediamo che sia nuovo,

ma è sempre lo stesso nuovo che ci appare differente,

diverso per il troppo rotolare tra polvere e fango,

tra pulito e sporco.

E non c’ e’ nuova foglia che possa sostituire la foglia caduta,

e non c’è nuovo verde nel corpo, che possa

tingere di verde nessuna altra foglia.

Aleggiai...

come una foglia cercai il vento, il trasporto,

cercai il rotolamento e il riso.

Ma triste me ne accorsi che non vi è vento che non nasce da dentro, dove il bambino gioca con l’ aquilone,

dove si inventano personaggi per poter giocare

e dove si esulta per la prima caramella di zucchero.

Allora è che guardai il sole nascere e morire,

lo saluto così, fingendomi gabbiano,

aprendo le braccia come fossero ali,

e volai, trasvolai lontano

tra il cielo e il mare,

quasi a bruciarmi gli occhi fissando il sole per non vedere

più di quello che vidi,

tristezza nei cuori,

miseria e dolore,

affanni per restare appesi

alla vita che poco offre ad ogni uccello

emigratore.


Pasquale Lettieri 06/03/2019 16:18 1184

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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I fatti ed i personaggi narrati in questa opera sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.


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