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Teste di noci di cocco secche

Dramma


Da dove si trovava, Juancito osservava il gruppo seduto sulla terrazza di una delle "taguare" del paese. Il sole del pomeriggio, pesante e ocra, cadeva su di loro, ma la luce sembrava rimbalzare senza illuminare nulla nei loro occhi. A distanza, parevano persone normali; ma per lui, non erano altro che esseri vuoti, senza nulla in testa, gusci cavi di ciò che un tempo poteva essere la speranza. Un nodo freddo gli si formava nello stomaco ogni volta che li vedeva, una miscela di pietà e un’amara irritazione.

Li immaginava come figurine con teste simili a noci di cocco secche, ruvide e senza vita, che, a fatica, si aggrappavano alle cime delle palme allineate sulla spiaggia. Quelle palme, stoiche e verdi, si ergevano ferme come soldati di fronte all’incessante assalto del vento, una forza viva e costante, a differenza dell’immobilità di quella gente. L’aria salmastra gli portava l’odore di mare e di sabbia calda, contrastando con l’aria densa di rassegnazione che emanava dalla terrazza.

Anche se tutti si ostinavano a chiamarlo bambino, un’etichetta che gli bruciava nell’anima, Juancito aveva già sedici anni e una consapevolezza acuta, quasi dolorosa, di ciò che stava accadendo in tutto il paese. Portava il lutto invisibile di una perdita che nessuno sembrava voler vedere. Il ricordo dei suoi genitori, la risata di sua madre, la mano forte di suo padre... quelle memorie erano come braci incandescenti sotto la cenere della sua apparente calma. Una solitudine profonda, un abisso ghiacciato, lo accompagnava da un mese, da quando i proiettili degli scagnozzi avevano strappato loro il futuro in una marcia inutile. Lui era scampato per miracolo, un miracolo che si sentiva piuttosto una condanna a portare il peso dell’assenza.

Sognava un mondo migliore, un luogo dove l’aria non sapesse di oppressione e il futuro non fosse una parola vuota. In un sussurro, quasi una preghiera a sé stesso, ripeteva: "Questa non è la vita che voglio per il mio futuro". La frase era un’ancora nella tempesta del suo dolore, una promessa silenziosa che gli dava uno scopo.

Studiava con impegno, l’inchiostro del libro gli macchiava le dita, ma ogni lettera era un gradino. Era il migliore della sua classe, la sua mente un motore instancabile. Anelava a diventare qualcuno di importante, non morire nell’ignoranza, di tedio — quella malattia silenziosa che corrodeva gli abitanti del paese—, di malattia o di fame, come quella gente sulla terrazza. Li vedeva lì, intrappolati, avvizzire, aspettando un salvatore che li tirasse fuori dalla dittatura oppressiva, ignari della forza che ancora batteva dentro di loro. La disperazione gli ribolliva nel sangue, una frustrazione che non faceva che crescere.

Alzò lo sguardo al mare, una vasta tela di blu e speranza. L’orizzonte, un punto diffuso dove cielo e oceano si fondevano in promesse irraggiungibili, gli faceva sempre l’occhiolino, lo chiamava. Nella sua mente, quell’orizzonte non era una fine, ma l’inizio di un viaggio.

— Un giorno, quando sarò più grande, raggiungerò quell’orizzonte e andrò molto più in là — si prometteva più e più volte, la voce di suo padre che risuonava dentro di lui, incoraggiandolo ad andare sempre più lontano.

— Non morirò come loro, aspettando che un altro venga a salvarmi. Vedrete! — la sfida non era solo per loro, ma per il destino che sembrava volerlo intrappolare anch’esso.

Improvvisamente, un’idea, un lampo di astuzia e ribellione, lo illuminò. Corse verso la piccola collina vicino alla taguara, la terra sotto i suoi piedi secca e scricchiolante. Da lì, con la brezza marina che gli scompigliava i capelli e il sole che tramontava alle sue spalle, gridò con tutta la forza dei suoi polmoni, la sua voce un’eco nel crepuscolo:

— Gli Avengers, gli Avengers, stanno arrivando gli Avengers!

L’effetto fu immediato. Tutti si alzarono di scatto, come spinti da molle, i loro volti prima apatici ora illuminati da una scintilla febbrile. Gridavano impazziti:

— Finalmente, finalmente, grazie a Dio!

Persino dalle case usciva gente, ombre rapide nella luce calante, persone che lui credeva non abitassero più in quel luogo, fantasmi di un passato che ancora avevano un alito di speranza. Tutti guardavano disperati verso il mare, i loro occhi fissi nel punto dove il ragazzo aveva annunciato gli Avengers, ma non vedevano nulla. Solo il vasto e vuoto oceano.

Accortisi della menzogna, la collera li invase, una furia impotente che ora si dirigeva verso di lui. Ma Juancito, approfittando della distanza, il suo cuore che batteva forte ma la sua mente lucida, gridò di rimando, la sua voce che risuonava con una verità ferente:

— Stupidi! Invece di aspettare vendicatori da un altro pianeta, perché non usate la stessa energia che sprecate con me per risolvere i vostri problemi e liberarvi dal giogo che vi opprime? Teste di noci di cocco secche!

Tutti rimasero muti, il silenzio pesante come una lastra, senza sapere cosa dire. La verità, cruda e senza fronzoli, li aveva colpiti. Ma prima che qualcuno reagisse e pensasse di lanciargli una pietra, Juancito si allontanò a poco a poco lungo la strada, la figura minuta che si perdeva nell’ombra.

In quell’istante, con l’ultimo raggio di sole che tingeva l’orizzonte, decise che era ora di forgiare la propria strada. Il paese, prima la sua casa, ora si sentiva come una gabbia. Nulla lo legava più a quel luogo, nemmeno il fantasma dei suoi cari genitori. Il dolore per loro era una ferita aperta, sì, ma era anche il motore che lo spingeva. Li aveva persi in una delle tante marce convocate dall’opposizione più di un mese prima. Erano stati colpiti, come tanti altri innocenti, dai proiettili degli scagnozzi del regime, un’immagine che lo avrebbe perseguitato per sempre. Lui era rimasto solo, senza famiglia in quel luogo di morte e silenzio.

— No, non morirò in questo pantano di zombi indottrinati — affermò a sé stesso, la voce ferma, la decisione incrollabile.

Andò a casa sua, un rifugio ora vuoto, che risuonava con gli echi di una felicità passata. Raccolse il piccolo zaino con le sue scarse cose; il peso sulla sua schiena era minimo, ma quello sul suo cuore era immenso. Chiuse bene tutte le finestre e le porte della casa, un atto di chiusura definitiva. Poi, si diresse verso il terminal degli autobus, l’asfalto sotto i suoi piedi, l’odore di benzina e di metallo, una promessa di movimento. Sarebbe andato nella capitale in cerca del suo unico zio; si fidava di lui, l’ultima speranza di un legame familiare, e sapeva che lo avrebbe protetto fino al raggiungimento della maggiore età.

Osservò per l’ultima volta quel paese, che si rimpiccioliva sotto il manto della notte. Dal profondo della sua anima, con lacrime silenziose che gli rigavano le guance, lacrime che non erano di sconfitta ma di addio e promessa, disse addio ai suoi genitori, che riposavano nel cimitero di quel luogo dimenticato. Il suo cammino cominciava ora, un cammino forgiato dal dolore, ma illuminato da un’indomita volontà di vivere e di lottare per un futuro diverso.


Arelys Agostini 26/05/2025 07:18 35

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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