| Il vento portava foglie
alle ruote delle biciclette,
il nonno contava ogni chicco d'uva
raccolto al svenuto vento sulla terra,
il gatto miagolava le sue pigre prospettive,
morbido nel calpestare breccia
con cui scrivevo il mio nome.
-amava starsene lì
a contare i raggi del sole-
Il violaceo bacio dell'arcobaleno
era un lillà fuso all'azzurro,
un cappello per il cielo
fino al prato corroso dai baci dell'inverno.
-amava stare lì,
dondolarsi tra le fiabe
che la mente raccoglieva alla notte
per raccontarle di nuovo
come i dipinti che dalla memoria
amano sbocciarsi come neve
sui rintocchi dell'orologio a pendolo-
Il nonno aveva una farfalla d'oro,
diceva che era un regalo della nonna.
-il nonno sussurrava ai suoi alberi
un linguaggio che io imitavo
filando altre fiabe tra le nuvole e le strade,
abbracciando quel molle e pigro gatto
bisbigliandogli il giorno che nacquero le fate-
Ed il fucsia dei ciclamini
si incamminava tra le vie dopo la pioggia,
a ridonare colore
dopo il grigio,
a raccogliere lacrime tra le case,
e di nuovo a splendere
sotto gli occhi dei bambini.
Ed il tutto
-d'improvviso-
era porpora rosea,
come fiori in primavera
-risorgevano cauti e impauriti-
dal nero che il buio
tinse alle foglie sul suolo. |
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I vetri hanno vene di cielo,
le balze dei tessuti ricamano i muri bianchi,
le voci corrono tra i corridoi, ridono, si salutano
e i tramonti tornano a risuscitare come foglie
quando l'estate riscalda le ginocchia del tempo
quando la cecità imprigiona la nebbia
e perde tempo a impacchettare carta regalo
da poter lanciare al mare con un fiocco d'argento.
Si mescola il pane alla sabbia,
molliche ai gabbiani
per auspicio di ciliegi
che tarderanno ad appassire.
È d'oro l'odore che sogno ad occhi aperti
fissando le stelle,
fissando le lettere nere,
sbattendo le ciglia davanti a fogli appesi sul soffitto
davanti a poesie tappezzate per le strade.
Ma se spalanco gli occhi
mi accorgo della paura...
l'arresa a non parlare...
più,
di osare ad essere senza pupille,
ad ostinarmi che l'amore è solo un disegno,
un cuore sui diari delle ragazze.
Ma se spalanco ora gli occhi...
Gli accordi vibrano sulle corde delle chitarre
come le crome che saltano fra le dita arrossate,
e un nome viene inciso sul banco,
un disegno sulle tue labbra e le mie.
È una piuma rossa
che porta tra i capelli la noia
quando si avvicina per andare via,
lasciando profumo di kimoni impalpabili
e un pensiero che pattina
sui laghi come un acrobata,
che riempie da sotto i piedi il vuoto
con sincopi che mi lasciano la speranza
e, senza respiro. | |
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| Sembra pioggia sciolta di neve,
i capelli che le bimbe si mangiano
per non piangere.
-Non c'è più sabbia, mamma-
E il mare ci riprende il cuore,
e le sirene non hanno potuto fermare il tempo.
-Ci hanno tolto la casa, mamma-
E le preghiere sono mute
come le campane dei templi.
I ciliegi hanno paura di sbocciare,
e il fiore di pesco dalla fortuna
non riesce a far la paura abortire.
E un'antica ninna nanna
suona lenta, come di un robot che danza
di un carillon, il canto di primavere,
-mi hanno tolto anche te, mamma.-
Sai... che -non- lontano da qui,
il mondo è solo dietro l'angolo
e i temporali sembrano bombe,
e i pianti che i bimbi nascondono
servono per non gridare.
Mi hanno tolto anche i sogni
-ora pesanti di cristalli radioattivi-
Mi hanno tolto il libro
dove scrivevo la nostra memoria,
-ma non c'entrano ora gli angeli-
I dolci Hachiko abbaieranno
con le unghie
e -tu lo sai-
il canto che le madri
pervadono anche i mari,
come le dèe che sui fiori
posano soffio, solo uno,
di bocche che hanno il nome delle rose. |
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| Dicono che quando si danza
l’Anima si riappropria del suo Corpo,
di quelle punte ferite e di quelle gambe,
di quel mondo che nel buio
ha sudato per avere di nuovo carezze
dal palcoscenico.
Dicono che quando si danza
non si deve l’occhio fermare
al rosa e alla delicatezza,
non deve chiudersi né spegnersi,
perché potrebbe volare
come leggiadria dell’aria
che sfiora i suoni dei suoi muscoli,
e ruota, piroetta, e si inchina,
come dolce sforzo d’orchestre.
Ed è anima che in bianco e nero
si piega, si stringe,
digrigna e ringhia,
cade e si rialza.
Ed è corpo
che non muore
sotto i proiettili delle pupille,
non farà nessun errore,
non darà che illusioni per magie,
e di nuovo potrà dire di aver toccato
cielo da solo un teatro.
Lindo e puro,
dall’incubo portato
come violini su cui morire
e poi resuscitare,
così agonizza e poi ancora
si rialza, si stende come gambo
che di primavera riporta colore
e si apre al mondo il suo fiore.
Sono storte le dita
nella notte, fino all’alba bianca,
perché i ritmi possano esser memoria
possano esser dentro -nel cervello-
possa io esser nemica e poi sua unica figlia.
Sono storte, - anime nella morte-,
sono storte, -corpi nel sole-
e lineari sono regine
affusolate e dritte,
ché di orgoglio è spettacolo
fin dove arriva Fine. |
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E di un ricordo sei lì
come un vagone pieno,
di relitti chiusi nelle anime,
e valigie che hanno il mio cuore – muscolo pulsante-,
ed insieme piegata con cura,
tra le maglie e le mie cravatte,
hai deposto la pazzia.
Perché toccarsi la nuca, bianca, con la punta
dei polpastrelli, come feci io, attraverso il vento,
e delle foglie umide la pioggia, tra i capelli
e il ticchettio di ore mai contate.
Ti persi tra le ombre delle tue scarpe,
vanità vane a cui baciasti le orme,
e degli abiti quel pizzo,
parlavi di corredi, e di bambini,
mentre il cuore –sempre lui-
me lo prendevi nella bocca dell’inverno,
e del tutto venni al mondo come il neonato
tra i seni del bocciolo in alba,
tra le tue bianche consuetudini,
come cosce di radici il giardino
a cui appoggiare e lì lasciare pensieri,
-si arrampicheranno poi, da soli, su per i rami-
e diverranno buoni, pesche o albicocche.
Ed è così,
che parli, gesticolando un ciao,
senza sguardi per i miei perché,
portandoti via,
tra gli steli nascosti tra i libri,
tra i tessuti, le tue sottane,
e le giacche a me rubate,
lì, portandoti via anche me. |
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| Sono nel buio le strade
auto mai parcheggiate
e gridano i bimbi scalzi nella neve
Le sigarette sono appese ai viali
Fanali senza fuoco
in cenere diventano i lacci delle scarpe
legati ai polsi
chiedendo il nome ai passanti
e un centesimo nella tasca bucata.
Attenderò ancora il suono del suo canto
lo stridere delle corde sul violino
e le dita a rincorrere le note sulla chitarra
Sul pianoforte farò sedere
i miei stanchi polpastrelli
e a loro dirò di chiudere gli occhi
I passaggi sono suicidi
in ascendenti e discendenti scale
su tonalità troppo ampie
da poterle raccogliere tutte quante
come un bimbo che vuole rubare
la luna dall'acqua
E le mani sapranno di avere i palmi amari
vuoti di ogni ala.
Aspettando le mie poesie
Che le muse mangiatrici
mi portino nuovo cibo
Aspettando nuovo odore
Quell'affannoso respiro
nell'inspirare l'aria della stanza
Tenendo il silenzio
appeso a un filo
trattenuto dai denti
e dai gracili pensieri
So che presto o tardi
Tutte queste carte,
architetture tremolanti
costruite come castelli,
crolleranno. |
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Si rompono come foglie in frammenti
sulle piogge delle strade,
le dita posate lievi sui seni dai spezzati respiri,
sulle mani che tremanti
hanno fobia d'amare.
-E non guardare il buio-
Pulsazioni dai petti dei prati
come grembo che dalla terra
ospita nel seme i fiori.
-E non mi guardare negli occhi-
Non voglio che tu -mi- veda,
che il -mio- buio sia bimbo capriccioso
pronto a portarti via,
un raggio che non d'oro
ha riflesso nel tunnel di meandri e ghirigori
su pupille lacerate dai sogni.
Un walzer su un caparbio trequarti
come un Mi che rimane abbracciato
al rigo di un pentagramma,
può essere così definito
il nero che di me tu ami,
l'inchiostro che mi macchia le mani,
quella luce che ha il solo bronzo
e che intravedi -scavi-
adori e invadi,
fra le braccia dell'esili onde
di quel mondo che fili lenta tra le fronde...
-lento- come la scia
che lascia il polline tra l'aria e il rame,
lavorato ad artigianato, come ortensia
che si crea fra i cespugli
...e i tuoi singhiozzi.
-E non piangere-
Faccio da equilibrista
su mattonelle di travertino,
-ricordati- che non sarò ombra. |
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E mi avvolgi di cicatrici
e di walzer con gli abiti di neri tulle,
e mi accarezzi e mi dilati le pupille.
E mi conti gli occhi,
e raccogli i suoni
che dalla bocca la voce
incanta e ammalia,
ammanta e quasi diventa sacra.
E mi bracchi tra le mani
la testa, e picchi il tuo profumo
lungo la schiena come il respiro
che ha il ghiaccio durante il sonno
delle volpi tra la neve e i colli.
E mi agguanti e mi tramortisci,
e mi uccidi...
sogno che il sangue non ha il vento,
e rispondo si,
e mi baci la luce sulla pelle,
lunare come la tua,
aliena come l’amnesia.
E sulle punte l’aria
danzerà nella gola
degli innamorati rancori
tra malinconie annoiate
e la voce non più ti parlerà
di me,
se non ombra che d’acquerello
sfiorerà le foglie scure
nel tuo cortile, dove l’anima
si assopisce tra i veleni
e gli incantesimi, che la notte
porta per rubare i pensieri
e nasconderli, su, nel cielo
divenendo stelle, meteore,
corpi che inseguono,
infine, la Terra. |
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E le stelle sembravano i tuoi capelli,
spighe di grano tra i polpastrelli
e le velocità dei treni
che raccolgono sui binari lacrime
e cloro.
E sembravi un bambino.
Le mani adagiate come cieli
che non vogliono più pianeti,
senza museruole per le rose
e senza spine per gli agnelli.
Vorrei agitare per un attimo solo,
- per favore – un solo attimo
un grammo di vento
per spostare i granelli
nel deserto
e respirare il senso di solitudine
che oggi viene schiacciato
sotto macigni di sogni troppo alti,
troppo grandi,
partoriti da un’ambizione innata.
E siamo corridori in un corridoio
troppo stretto
troppo grigio
e con le mascherine agli occhi
di cecità vogliamo vivere,
di sensazioni che sbocciano dai brividi
e da emozioni, celate sotto un sottile
strato di ghiaccio.
E dammi le mani,
e le ricorderò, piccole
e forti.
E coprimi le ciglia,
e le ricorderò vibrare
non per il pianto
ma per l’aria che respiravi.
E guarderò le stelle
e per me saranno tanti fuochi
accesi dalle gocce
di una pioggia di neve.
Brillanti
come gli occhi
di una volpe. |
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