Del sorgere le gialle ciglia
dagli occhi dormienti ancora
del mattino spalancando pupille
del ceruleo che i tetti racchiudono sulle cime,
e divento foglia di verde che il silenzio dipinge,
e voce che di pesco ha ancora da fiorirsi le nostalgie,
e di madre sa ancora piegare nel grembo le ali
delle madonne, stese sulla sabbia tra la salsedine e gli angeli,
tra le cipree e i loro bimbi, perle che di grigio è poi non più nero
tra le luci e i fondali, che sembrano sirene.
E del loro velo, si nutre il cielo di latte
come di stelle su fili tenuti da marionette
e di lune che i monti timidi sorreggono
sulle spalle, come padri
pescatori di viandanti senza memoria,
e di nuovo è casa, oltre la lunga barba,
naufraghi senza fotografie,
raccolti fra le reti e le meduse,
e oltre lo specchio d'acqua
sarà il figlio a guardar loro
le proprie cicatrici, e lì baciarle. |
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Di perlacee che hanno di roseo e di neve
quel violaceo sussurro dei fiori che riconoscono
il passo al mese di settembre,
ed un collare di aspri spini d’echinacee
al corroso tempo quanto caparbio
di un soffio che tira giù tutte le tende,
ed il soffitto è bianco sul corpo,
ogni piega una crepa,
ogni ruga, come d’ inerbita la mano
che non cura anima propria
ma attende prolassi e stordimento,
mentre le piante –intorno, in giardino-
cadono già, svenendo come vergini
dalle verdi chiome senza più capelli.
Eri d’argento, così la luce tra le acque,
un celeste che dicono hanno gli angeli,
incastrata come una madre pronta
a salvare l’immobilità e l’eterno,
il biancore dei dipinti nei grandi castelli
di mattoni logori e di visioni cieche
che non amano poi tanto parlare.
Di delicato lì giace, l’abito nero
delle nefandezze, sul rogo di un letto
che accoglie torture e tormenti,
e sono lingue –tagliate che ancor chiacchierano-
a martoriare del tuo volto la beltà,
-non le do mentore né menzione-.
Perché io –rossa in volto-
ti ricordo –sì, d’argento-
come la luce tra le acque
e come dicono degli angeli
con l’ immobil turchese
tra le corvine ciocche,
ti rievoco come allucinazione
silente e muta, di sinuosa ombra che non ha grigiori,
e di cristallo la voce
come il mare... –come il dì della sua tempesta il frinire-
quel mare che ti portò via. |
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| Come benda la mano, la rete.
Come bocca il bacio, il respiro.
Come il pianto l’eco, il canto.
Come il mare la madre, la figlia.
Come dannato il cielo, l’inferno.
Come benedetto il veleno, il paradiso.
Come l’argento che ricopre la pelle,
è un soffocare che riempie le ciglia,
non è pioggia, ma neve che si scioglie al mare,
ma è sole che ripete ninne nanne alle albe.
Come il marito a cui rubarono la genie,
in fasce era la voce, cucita al mignolo.
Come il fiore che non c’è più, era d’alga il colore
e di montagna il profumo, portato come alloro
dai fenicotteri fino al delta dei pescatori.
Fino ai confini, ha corso,
gridò come padre senza figlie,
e lei partì, bambina,
e lei sparì, piccola,
sposa d’oceano.
Fino al silenzio dei boschi,
fino agli spiriti dei tronchi,
arrivò il suo canticchiar, senza parole,
-non sapeva parlare-
né lettere componevano i fulmini dei suoi occhi.
Fino al mito delle sorelle sirene,
fino al tramonto della luce nell’acque,
percorse il ghiaccio e il buio,
senza aprir sguardo,
senza pretendere il guado,
tuttavia alzò pallida la caviglia,
e l’orizzonte l’abbracciò
senza che lei si voltasse alla terra.
Braccata come le stelle,
e bianca
divenne luna. |
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Hanno tetti di cartapesta,
i treni, -sulla nostra testa-.
E diventa bianca, la pioggia
una corsa contro il tempo
-contro le sirene delle sue ambulanze,
e i fari accecanti sulle autostrade-.
Hanno capelli morbidi,
le bambine dormono,
le madri si stringono a maglioni
-sfilacciati- alle finestre
dove la luna perde strati
-come gomitoli di lana-.
Hanno –bianche- le facce
-gli specchietti ai fianchi-,
mentre ti ricordavo,
forse azzurra la luce
sulle gote e il collo,
e gli occhi chiusi,
in auto mentre ti accarezzavo,
e ti dicevo che tutto andava bene,
-che se volevi piangere,
potevi farlo, il pianto,
lì sotto i cipressi dell’ospedale-.
Ma bruciava,
-Dio, quanto bruciava- quella pioggia. |
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Ti attendevo come la terra
che sa che la neve
presto gelida tornerà,
così come la sabbia
non può esistere senza che acqua
dal mare non la sommerga.
Mi sono ferita con le tue cicatrici,
mi sono fatta male, già, caduta e finita
con le tue stesse ferite.
E maledico il vino, e maledico la pioggia,
ma eri come il figlio partorito dalle stagioni,
un semidio distrutto dai padri dell’olimpo,
ed io... non ero che il dipinto di lei.
E strappo le vesti alle ostriche delle coste,
e taglio la rete dove sono svenuta,
non eri che solitudine fatta uomo,
statua del guerriero più acclamato.
Volevi il bacio di lei
-ed io posai labbra, ti baciai-
Volevi il sorriso di lei
-ed io ti sorrisi, ti accarezzai-
Volevi lei
-ed io mi abbandonai-.
Me ne andai all’alba
come il sole
che la spiaggia abbandona,
mi alzai con il sangue alle mani.
Ferite, le tue sulle mie,
cicatrici, le mie alle tue,
baci... che tu amavi, da lei.
E mi maledissi,
metamorfosi di nereide,
e mi fusi al sale degli occhi,
alle sfumature marine
e al dolore,
del parto che il bambino
mi portasti via.
Madre che non aspettava che il figlio,
allucinazione di una luna
nel mezzogiorno delle sveglie città,
ed io,
io ora sono qui,
nereide incastrata nel tuo incubo,
vicina a lui... cullato dalla Terra,
nel tuo castello di rabbia,
così vicina, che potrei sfiorarlo,
così vicina, che potrei perfino spezzarmi,
piangendo come tempesta che rinvigorisce l’oceano,
così vicina a lui... che torno madre al mio bimbo
come mare alla sua sabbia. |
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| Gli occhi tra le umide foschie
sepolte sotto le tue rosee palpebre
sfiorano i lineamenti della mia nebbia
Mi sovrasti sul cuore
con il tuo affanno
Mi chiedi un nome
che non appartiene al mio gusto
Mi chiedi identità
di donne che già hai avuto
Sparerò contro l'intonaco
Aspetterò esplodere l'aria
E vorrò buchi sui muri
dove posare polpastrelli
appoggiando il pesante fardello
che chiude le tempie.
Una corona di garofani
Una ghirlanda per il compleanno del mio lutto
Un anniversario di bugie e di silenzi
Un incubo di mani gelate fra i seni
E un grido soffocato nel morso di una preghiera
Scaverò gallerie tra il vuoto e il cielo
Resteranno tra le tue dita i capelli che mi hai strappato
E ti lascerò una corda... al soffitto già annodata. |
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| E tra i tuoi capelli i rami del sole,
e i tuoi baci, come morsi
che gli ululati dei morfeici ghirigori
lasciano ai respiri tra i lacci e le ragnatele,
tra la neve e le slitte,
ed io sono caduto –a pezzi-
per amore nel tuo seno.
E ti ho abbracciato,
assaporato ogni tuo odore,
catturato un bacio dopo l’altro,
preso dalle memorie delle nostre sorti,
come lenzuola bianche che si tingono,
di noi.
-Trattenevi, muta-
Sapevi già ogni mia voce,
sottile come una parola,
o movimento di un mio pensiero
-E d’ambra gli occhi-
Sapevi già che mi amavi,
così come i segreti
che il sentimento frena
dentro, tra le sottane del petto.
Ti ho colpito... cosparso del tuo sangue
il candore che il gelo ricopre nel freddo.
Ti ho inseguito come il cacciatore
promette al buio, e ti ho di una freccia
il mio trionfo donato ferite.
E solo all’alba, la luce ridona ad ogni forma la sua esistenza,
ed il mio urlo fu spezzato dal soffio delle nuvole,
vederti, -muta-,
-e d’ambra gli occhi-,
raccolsi così, come al perdono,
dalle ginocchia, il ghiaccio rosso del tuo amore. |
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