| La poesia è una tonica pozione,
è tenebra, é prigione,
è l’eco cupo delle braci spente...
Pöeta è un fuggitivo un po’ guascone
che azzanna e mai si espone
dosando il suo veleno dolcemente.
Un tarlo è la poesia, è ribellione,
lo sgarro alla ragione,
l’assaggio degli algori alla sorgente,
la poesïa è follïa, è confessione,
paura che t’impone
di spegnerti in un borgo e lentamente.
Poesia è morte, il mai sbocciato giglio,
l’artiglio dentro carne martoriata,
la madre torturata
sopravvissuta al suo diletto figlio.
Poesia è il vento, autunno e il suo vermiglio,
sul ciglio foglia secca trascinata,
dai passi sbriciolata,
è un grido che troneggia sul bisbiglio. |
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| Fumigavano gli agri, allegri canti
sortivano dagli orti, storni e tordi
affollavano frassini e festanti
pargoli s’ingegnavano in bagordi.
Fumigavano menti dei migranti
sognando antichi borghi, giammai sordi
agli echi di puerizie giubilanti
- ben sanno i sassi svegliare ricordi.
Tace la terra sotto il latteo manto:
l’inverno sembra aver, con le vetuste
foglie, ingoiato ogni gagliardo canto.
Tacciono madri dei migranti esauste:
il tempo non sotterra strazi e il pianto
pregna i muri rupestri in sere infauste. |
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| Il cielo è brace, avvampa l’orizzonte
mentre i bronzi richiamano il bestiame
la torre al vespro dà più slancio al monte
che veste un’ombra lunga color rame.
E s’ode il mormorïo della fonte
e delle donne tra i bei serti e stame
le nonne con i veli sulla fronte
separano pannocchie dal fogliame.
L’inezia che il pensiero sa speziare
che mi ritempra e mitiga il tormento
in sere in cui di stelle è un occhieggiare.
Al tocco breve d’ore giungo spento
dai "prosit" con gli amici a salutare
un nuovo giorno pieno di fermento. |
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| Non è essenziale rievocare quello
che c'è stato di bello;
la tenerezza o il primo bacio dato
a mezza sera - il cielo era il mantello
lumi le stelle e nello
stupore, tra gli Dei, mi son destato -.
Ciò che più preme è non scordare quello
che fu il nostro fardello;
le rampe, i rovi e il varco oltrepassato
fianco a fianco evitando che l'anello
spezzasse all'urto dello
scabro inferno con forza superato.
I fossi e i sassi e sdruccioloso il viale
non si dovranno mai dimenticare
né l'impeto del mare
traversato arrancando in freddo australe
mille volte che siamo stati male
consapevoli di sacrificare
pezzi di noi per dare
forza al logoro patto coniugale. |
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| Alice aveva appena tredici anni
due occhi grandi scuri come more
fu breve il viaggio - non fiutò gli inganni -
aprì i suoi petali a mendaci aurore.
Con innocenza ambiva ad alti scranni
s'era già iscritta al primo superiore
quando la bestia le strappò coi panni
di sua avvenenza il garbo ed il candore.
Tentò di raccattarsi ma il perito
la rigettò di fronte all'aggressore
che calunniando puntò contro il dito.
La gogna originò maggior dolore;
non prese il volo l'angelo impaurito...
...forse l'inferno Le sembrò migliore. |
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| Pareva fosse imbelle
il mellifluo vermetto abbarbicato
al mio guscio temprato;
gradevole la lingua sulla pelle.
Movenze sexi e belle
vellicando sinuoso e delicato
la scorza ha perforato
ponendo il trono nelle oscure celle.
Lentamente ha ingoiato la sostanza;
con dolce mordicchiare
come una lapide ha lisciato stanza.
Ora so che coi resti del mio amare
banchetta il bruco e danza
vizzito... sarà un refolo a sbrogliare. |
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| Delizie sotto gli archi ben stipate
le sorbole infilzate
i fichi bruni posti ad ammezzire
l'uvetta in ceste in vimini trecciate
delizie destinate
al verno in cui la terra sta a dormire.
I cachi in paglia e pere maculate
le noci già sgusciate
i peperoni corno a rinsecchire
dei melograni pelli già dorate
cipolle inghirlandate
le mandorle e castagne da arrostire.
La malva appesa e origano a seccare
i rossi serti d'agli e pomidoro
mazzetti anche d'alloro
al soffio della brezza a dondolare.
Bastava solo poco per campare
quotato tutto in borsa come l'oro
decide oggi il decoro
lo spread che i colli bianchi sanno alzare. |
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| Con occhi vitrei scuri come more
e le pose d'un attore
ti celerò uno sguardo tentennante
le labbra schiuderò a rallentatore
e la maschera migliore
mi cucirò di bieco ed empio amante.
Estrapolando il settimo colore
dal tenebroso amore
nel nero intingi l'uzzolo frizzante
soltanto attingi a picchi di colore
vedrai che colmi l'ore
la perfida passione è più appagante.
Non colerò su brame l'acqua pia
di questa anima mia...
è solo pece il delicato amare
ti voglio ubriacare
di brividi intrecciando fantasia.
A briglie sciolte poi a galoppare
le voglie da colmare
assaporando gocce di follia
sarai un po' meno pia
sul petto mio vorace a delirare
con te ci sarò anch'io a luci spente
con l'alma assassinata finalmente |
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| Novembre sulle alture del vastese
sul silente paese
la densa nebbia cola dal crinale
e offusca le casette ancora accese
con trecce d’oro appese
- orpelli le pannocchie in davanzale.
Le viuzze del mio borgo son scoscese
per lunghi tratti lese
ma il vecchio accarezzando ogni pluviale
ben solleva le suole nelle ascese;
per evitare rese
fa spesso sosta salendo le scale.
Soltanto scorie affollano la mente
ben dispensate da pastori insani
hanno spinto i Frentani
a lasciare gli stazzi celermente.
Un posto al sole e un soldo nelle mani
per mantenerli schiavi eternamente
con disvalori e il niente
il mare ai monti ha rubato il domani. |
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Siamo mäèstri in mordere l'istante
non rinunciamo ai teneri quattrini
e abbarbicati al grembo governante
ai giovani porgiamo asprigni spini.
Per piú pesare spolveriamo Dante
gnomi schierati - o Guelfi o Ghibellini -
e ingoiamo farragine purgante
- in ribollita allori di Fellini.
E' perfido profuso d'oleándri
col-Lusi in un Paése ormai s-Fiorito
lo scranno non si nega a una Melandri.
Manette tintinnanti e teso il dito...
deposti oscuri e ruvidi scafandri
poi gongoliamo in glabro d'un partito. |
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Agli aridi tecnocrati e baroni
deliziose porzioni
di chiose pungolanti porgo in rima
a motivare l’acide razioni
mi spinge tra ragioni:
pulire l’olmo dalle larve in cima.
Appollaiati condor e grifoni
le volpi alle Regioni
morse da fame molto più di prima;
durissimi gli alterchi in spartizioni
sono pure finzioni
il vitalizio in fondo li sublima.
Arrovellandomi perciò spingardo
quel sudicio cemento fatto duro
ma non scalfisco il muro
ch’ora contiene un popolo gagliardo
smanioso di riprendere il tratturo
seppur d’assenza ha saturo lo sguardo
che rimane - testardo -
inchiodato al proscenio del futuro. |
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Ancor si tornerà a scannar maiali
nel gelo dell'inverno sotto i monti
scorrerà sangue lungo antichi viali
i nuovi briganti mineranno ponti.
Senza ragione dati in pasto a squali
sacro diritto a presentare conti
ai molti populisti criminali
attenti solo a propri tornaconti.
Chiamati alla vacanza in riva al mare
per albergare un capannone sconcio:
"E' iodio quel che aiuta a respirare".
"Ma quale ripugnante sacrificio?
Licenza illimitata per curare
i lievi ammorbamenti da silicio". |
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Non è banale fare una nazione
evitando che il potere poi diventi
monopolio di falchi che al balcone
soffiano fiato sulle fiamme ardenti.
Pare la storia scritta dall'azione
di "papi" e altri perfidi potenti
che hanno di sangue sporcato poltrone
spargendo polve dell'etnìe ai venti.
L'intolleranza è nelle vene, un grumo
maledetto che punta dritto al cuore
rabbia che ammorba per mandare in fumo
quel poco che rimane dell'amore.
L'odio lo riconosci dal profumo
ha un acre odore di morte e dolore. |
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Babbo natale s'è fermato ad Eboli
e Befana è attaccata ad una flebo;
solo Gesù Bambino dalla croce
disceso in terra ad ascoltar la voce
degli agnellini; Fedro ha dato sebo
insieme al grano al lupo per placebo;
s'è scelto a chi toglierlo - testa o croce -
ed ora il pranzo di molti è più veloce.
Nasce sul colle degli ulivi Cristo
nell'anno in cui già canta il grillo, franano
i monti e i vecchi incalzano:"Visto?
Alla mia età si può mangiare grana".
Risorge il cavaliere: "Non desisto...
che nessuno mi rubi... l'egiziana". |
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| Se sapessimo amarci immaginandoci
ori accesi del sole che mischiandosi
al cielo danno tono quando, in pallido
albore, pare che l'ardore stalli!
Se spogliarci sapessimo e inspirando
riassaporarci... alzarci e camminando
poi condurci con vecchia audacia in valli
verdi dove la neve allevia i calli!
Uniamoci per vincere, occupiamo
lo spazio che ci spetta e senza oziare
senza dimenticare che eravamo
una coppia capace di planare
al mero sguardo d'infiammarsi e il "t'amo"
necessario non era per ... sognare. |
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| Se c'è del sapido o del sacro o santo
in sporche pratiche - in privare della
sua vita un essere - a me sfugge: nella
cella è possibile espïare... e tanto.
Delitti inutili ed esposti in vanto
empiono pagine inquietanti: nella
storia l'ominide evoluto della
progenie splendida ha composto il canto.
I meno limpidi ed ombrosi amavano
e imperscrutabili e più cupi patti
e cento calici i califfi alzavano
e s'affibbiavano i funesti fatti...
ma nei demoni neri non suonavano
- e ben come dovrebbero - i misfatti. |
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| Un tirare da matti: non ammette
soste, pause, una isteresi tra "mettere
in moto" e "cambiar marcia" ma soltanto
un "tutto- accelerato"; d'altro canto
non dico il falso affermando che il tanto
sospirato benessere per quanto
allettante - purtroppo - non permette
più pasti lauti tra letto e lamette.
Seppure l'ora non sia poco acuta
le pigre foglie stanno a gelo e vento
e della luna sulla valle muta
lento s'adagia il fulgore d'argento:
fremiti e affanni forse non aiutano
a superare il traguardo... dei cento. |
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| Tratteggiano versetti con gli artigli
e ci ricacciano in era glaciale;
se disturba la satira i chirurghi
danno mandato ai più teneri insetti.
Barbuti e bradi che labili e gretti
sovente si improvvisano tëurghi;
ma nella misera armata del male
appaiono più capre... e un po' conigli.
Balbettano e imbastendo labbra i figli
li riconducono al crudo banale
per poi proporli improvvidi liturghi;
statue e effigi distruggono i demiurghi
e non rispettano il diverso, il sale,
poi ghignano sfoggiando neri pigli. |
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| Non risparmierò inchiostro nel narrare
e neppure parole e tanto più
se sterpi rispuntassero a strappare
gli agi dei non più verdi gigli; giù
nel palpito mi pungi e nel pensare
non prendo sonno sapendo che tu
oh madre resti ferma a consumare
la vita in vuoto che snerva virtù.
Non voglio rassegnarmi né spegnere
la rabbia, l’acre brace che strabocca,
voglio fare chiarezza e poi rimare
il becero che sboccia dalla bocca.
Non risparmierò sputi per offendere
coloro che abbandonano la rocca. |
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Non è più tempo di parole impure
di fosche sringhe o di ufrasi fumose
per di più spese a stemprare con fiati
ammorbiditi gli infiammati armenti.
Di quieti brevi e di lunghi lamenti
non è più tempo e d’urla imperiture
di ceri neri e di pietose rose
che adornano sacrari improvvisati.
Ma non morremo di carmi ammorbati
di sibili insidiosi di arse menti
di fatue crude o d’inumana scure
che sul capo infedele pende; eppure
la cura sfugge e sfumano i sudati
azzurri dentro tenebre ruggenti. |
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Aleggiava una strana quiete quando
il rio si fece torbido; ingrossato
cominciò a mormorare frammischiando
ramaglie e fango e fogliame grinzato.
Qualche fugace occhiata e setacciando
in tratto antico trovai l'inumato
giorno nel quale l'acqua sgretolando
gli argini scompigliò l'agglomerato.
Non ha memoria l'uomo e il mesto fiume
torna a invadere l'alveo, a spazzar via
ciò che, curato con non congruo acume,
ne intasa il corso; il lascito è una scia
di morte, un manrovescio a chi presume
di sapere che spazio ce ne sia
e ovunque da colmare con cemento
dimenticando il primario elemento. |
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Poiché mi porse i respiri più aulenti
l’acuto sguardo non distolgo e - creso -
vago tra regie vestigia giacenti
tra l’ubertoso Tara ed il Galeso.
A conferirLe fama fra i reggenti
gli ori, i due mari, un ipogëo esteso,
gli echi di Sparta, il ponte, le possenti
torri e l’inferno che i fiori ci ha preso.
E quando l’ombre annunciano la sera
muove la mente al magnanimo mare
che solo basterebbe a farne meta;
la sabbia bianca e la brada scogliera
ricordo e mai potrò non ricordare
quell’angolo del globo che m’allieta. |
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Sommando i giorni amari mi domando
dove sia Dio, dove si nasconda
e non ignoro, il buon vento anelando,
che nel grigiore ogni tragitto affonda.
Rocce, cippi lucenti lungo oscuro
viale non svaniremo nel livore
ferale del tramonto, sopra al duro
selciato dove latita il colore,
dov'è il silenzio un compagno che segna
ogni metro, ogni misero segmento
d'un percorso spinoso che ci impegna
a fondo; serve una sferza, un fomento
che strappare ci possa da un torpore
che ingabbia consegnandoci all'algore. |
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L’ombra troneggia e in dimore segrete
dell’astro echeggia il precoce declino;
tetra è la volta e su rotte inconsuete
navigo a vista invocando il mattino.
E mi accompagna una cocente quiete
mentre la neve mi imbianca il cammino
a raccontarmi una profonda sete
colline brulle e ingiallito il giardino:
sopra ai germogli le ghiacce rugiade
i chiari segni di notti inclementi.
E corro, corro polverose strade,
corro braccato da brezze roventi
e sotto il peso di lampanti spade
corro su pietre di vespri pungenti; |
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L’algore spinge, aggiungendo sgomento,
in un gorgo, in un vortice neurale
che luce inghiotte; sull’aspro crinale
il fiato è corto e sotto un astro spento
vuota è la vela: il vociare del vento
sfuma e fa spazio a un silenzio ferale
mentre la bruma da forre risale
e cancellando acuisce scoramento.
Nell’ampio immoto, mosso da una fame
che il tempo, penso, mai possa risolvere,
assiemato il mio misero rottame,
io dalle spalle scrollerò la polvere:
e, aperte le persiane a prime lame
di sole, il fosco osserverò dissolvere. |
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Dentro mi scorre questa incongrua terra:
terra di gheppi e di ingenui fringuelli
di cicale arrochite e di formiche
terra di sterpi e di tralci pregiati
di guardie e ladri e naviganti e vati
del dolce canto e dell’urlo di guerra
di lupi improbi e d’illibati agnelli
terra di ortensie e terra di ortiche.
L’Italia dei sodali e delle siche
dei dottorati e degli astri migrati
a New York City a Londra ed a Camberra;
l’Italia che ti esautora e sotterra
con canti oscuri di canute piche...
L’Italia degli eterni precariati. |
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Sono tornato ieri e al cimitero
ho fatto sosta – lo faccio ogni volta -
ho portato dei fiori e acceso un cero
a mia moglie che giace qui sepolta.
E, come sempre, in questo luogo austero
l’anima mia è dalla brama avvolta
di visitare amici che ora spero
affollino con gli angeli la volta.
Ho visto Franco, Antonio, Pietro, Nino
poi Angelo e Francesco ed Ugo e Peppe
e Icilio e Mario ed Ettore ed Ernesto;
non ho dimenticato Pasqualino,
Nico, Gianna, Nicola o Pier Giuseppe
stelle perdute, spente troppo presto.
E con lo sguardo mesto
tra i marmi ho camminato: la mia mente
dalla foce è tornata alla sorgente. |
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Sarà perché dell’inerzia apicale
sembri l’emblema, immaginando tremo
ordinanze esiziali: incontro andremo
- io temo in fretta - alla quiete fatale.
Più propenso al simposio parentale
senza acuti né lampi hai messo al remo
un popolo plagiato e perciò premo
scagliando un verbo tutto pepe e sale.
Si, lo sappiamo: è questione di stima.
Ottenebrato dal lauto potere
vai oltre il peggio e fai che quelli prima
appaiano filantropi o chimere.
Sarai comunque un ospite importante:
alle esequie del borgo... l’officiante. |
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Al bar da Mario ci troviamo i cari
amici a ravvivare la mai spenta
ilarità; l’Emilio ci rammenta
mostrando di saper più di comari.
Remo mi arronza per gli errori vari
a tressette, tuonando mi tormenta:
"Mah! Mizzica compare!" - si lamenta -
"chiamo bastoni e mi butti denari?"
Ma mentre progettiamo un pranzo al volo
Luigi è in viaggio, sogna un’altra spiaggia;
qui la gatta ci cova: è amore! Ha un bolo!
Pungendo Diego aggiunge: "se l’assaggia
può accadere che lasci il patrio suolo"
ma poi parla Peppino e lo scoraggia".
Michele ammicca e mostra di sapere:
"C’è infiammazione..." e Carla sputa il bere". |
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