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 | ♦  Giorgio Lavino   | 
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        | V'era tempo addietro un cigno dolenteche vivea sull'acque d'un picciol lago.
 Il suo ciglio stava sempre gemente
 e perduto nel profondo del vago.
 
 Sognava la compagnia e il dolce Amore;
 e tanto voleva e bramava amare
 che trascorrea le solitarie sue ore
 nella solitudine del sognare.
 
 V'era anche un'aquila bella e galante
 che volava sur d'un vicino monte.
 Il suo volto parea sempre esultante
 e regale nella sua balda fronte.
 
 Cercava la felicità e il diletto;
 e tanto desiava goder la vita
 che nel suo femminino e baldo petto
 niuna lena stava morta e sopita.
 
 Un dì il cigno vide l'aquila amena
 volar tra i placidi venti del cielo.
 Gli parve una pia creatura serena
 colma di dolcezza, colma di zelo.
 
 E subito sentì il pio còricino
 balzare nel petto forte di speme.
 Era l'Amore... l'Essere divino
 che monda il pianto del ciglio che geme.
 
 Anche l'aquila vide il miser cigno
 alzar il bianco viso verso di lei.
 Ma nel core nessun delizioso igno
 le inspiraron i fatali e crudi Dei.
 
 E fè l'indifferente e la crudele
 sicché volò via oltre l'orizzonte,
 lasciando il cigno in preda all'aspro fiele
 e a mille e mille insopportabili onte.
 
 Il cigno superò allora il silenzio,
 e col suo canto piangente la chiamò.
 Il duolo era sì forte, era d'assenzio,
 che a gridare smarrito pur si trovò.
 
 Sembrava dire- " Amami, ti prego!...
 Orsù, amami!... Sii tu la mia compagna "-.
 E il silenzio parea opporre il diniego
 a questa tormentata e cruda lagna.
 
 L'aquila frattanto s'era posata
 sur d'un lontano frondoso arboscello.
 Sentìa, sì, sentìa, d'essere chiamata.
 Ma sussurrò al core-" No! Resta fello "-.
 
 Come potea amare un cigno sperduto
 che l'unica virtude che per lei avea
 era la voce simile ad un liuto
 sònato ai piè del forte della contea?...
 
 Il cigno continuava anco a cantare...
 a lamentarsi sempre a squarciagola.
 Oramai voleva e bramava amare,
 e uscire dalla vita oppressa e sola.
 
 Ma soltanto il silenzio lo cullava
 in quel momento tra il dolce e l'amaro.
 Soltanto il Destino gli minacciava
 un immenso duolo sempre più raro.
 
 L'aquila nel frattempo mosse il becco,
 e fè sentire la sua dura voce.
 Parea gridare un no tremendo e secco...
 un diniego terribile e feroce.
 
 E quando risentì il cigno a pregarla,
 ella volse lo sguardo all'artiglio.
 Mirò l'ugna. Che fare? Affilarla?...
 Ah, quale terrore! Quale scompiglio!
 
 Passarono l'ore. Giunse la notte.
 Il cigno gemente ancora pregava
 nel mezzo di quelle perdute motte
 che la bianca Luna già salutava.
 
 L'aquila crudele e ria non rispondea.
 Il suo becco stava muto e furente.
 Il suo tenebroso e duro cor tacea.
 La pietà dinnanzi a lei era silente.
 
 Ahimè, il cigno allora s'arrese e tacque.
 " Quando il dolce e soave canto ha finito
 il cigno s'appoggi sulle fredde acque,
 ché oramai può dirsi strutto e perito" .
 
 E così come dice l'anatema,
 subito il pio cigno defunto giacque;
 e quasi per dolce pudore e tema,
 sprofondò nel vortice di quelle acque.
 
 Non udendolo più, l'aquila accorse
 al solingo e dimenticato lago.
 E, mentre esultava, al core la morse
 un malore proveniente dal vago...
 dal vago di quell'Amore celato,
 di quell'inconscio e dolce fòcherello
 che forse stava da sempre inchiodato
 a quel core che morì crudo e fello.
 
 Ed ora che sto già per lagrimare
 pensando il mio Amore non corrisposto,
 questa favola s'ha da terminare
 a qualsiasi prezzo, a qualsiasi costo.
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        | Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore. La riproduzione, anche parziale, senza l'autorizzazione dell'Autore è punita con le sanzioni previste dagli art. 171 e 171-ter della suddetta Legge.
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