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Responsabilità sociale
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Scandalo dell’io

Sociale
Si vorrebbe eliminare quel lemma dal vocabolario,
quel pronome scandaloso e quel simbolo sciagurato
designante il rigonfiamento egoico dell’individuo
smanioso di raffigurarsi come qualcuno e non nulla.

Il pomposo io sgorga da tutte le strozze ogni secondo
come da un tumore maligno pronto a squarciarsi,
una bolla nefasta che riempie le fauci dei mortali
deformandole in una smorfia o un digrignar di denti.

Io sono questo e quello, io sono un filosofo,
io sono un poeta, un artista, un pittore, un musicista;
io possiedo questo e quello, io sono insostituibile,
io sono bravo, bello e buono come un eletto del dio.

Io sono questo e quello, io sono un santo, un papa,
io sono un ministro, un senatore, un deputato,
io sono un grande imbonitore, un banchiere,
io sono un gran trombone, io sono, io sono, io sono.

La proliferazione dell’Io è orripilante e intollerabile,
e la sua reazione a catena può sbraitare raccapricciante:
Io sono una Donna, Io sono una Madre,
Io sono Cristiana (ergo sono una Santa)! Io Io Io, Ih- oh!

Ih- oh difendo a spada tratta la famiglia tradizionale,
ma la mia è tutt’altro che una sacra triade o trinità!
Ih- oh difendo la nascita naturale di tutti i bambini,
ma di quella di mia figlia nessuno osi accennarmene!

Si vorrebbe poter fare ingoiare quei ragli a chi li ringhia
e farli risprofondare nel gargarozzo da cui sono usciti
nella loro volgarità inemendabile e presuntuosa
come se dichiarassero l’inconsistenza del megafono.

Chi li vomita snocciola spesso una bella risata dal muso
ridacchiando come per un sogghigno irritante:
lo si scorge quello sghignazzo sulla sua faccia demoniaco,
foriero di fiato solforoso già se lo si sniffa da lontano.

La risata che conferma l’io nella sua tumescenza
ispira nel digrigno una nausea che non si riesce a placare
in chiunque (altro e altro io) sappia rilevarne il ribrezzo
condannandone l’indebita e vergognosa diffusione.

E questo perché l’io deborda al punto che nessuno
riesce efficacemente a farne a meno e debellarlo
dalle confabulazioni del cianciare e del vociare comune,
dell’uso deittico del linguaggio come un sacro mantra.

Il valore indessicale che lo qualifica è strapotente
e vanifica ogni tentativo di disattivarne l’aculeo
disinnescandolo e anestetizzandone il veleno
nella sua sostanza tossica, contaminante e appestante.

Nessuno può non dire Io: la necessità del suo uso, si sa,
la vince a man bassa su ogni esperimento di opporvisi,
come per quel paradosso del cretese famoso
sostenente tutti i cretesi siano indistintamente bugiardi.

Nel suo impiego moderato, d’altronde, è inevitabile
e tutti siamo costretti a servirci del suo ausilio
per qualsiasi discussione o pubblico confronto
sebbene ciò non significhi esista una sostanza- io.

Il mito dell’Io, di una essenza denotata dalla deissi,
una sorta di anima sovrasensibile e ultraterrena,
cui i megafoni sembrano riferirsi proferendo l’io,
è qualcosa attinente alla metafisica delle sostanze.

Tale mito è pressoché indistruttibile e solidissimo,
e al massimo possiamo decostruirne la realtà concreta
controllandone il più possibile le sfaccettature
al fine di ricostruirne l’origine in senso scientifico.

Lo stesso ridacchio dell’io derisore è oltraggioso enfiore
tendente a mostrare all’altro il compiacimento del ridente
con la scusa tale tumefazione faccia un qualche bene,
mentre non fa che provocare insopportabile repulsione.

Dai selfie e dalle foto si disvela quell’amara apocalittica,
che non viene meno tuttavia e anzi aumenta a dismisura
assordando nell’urlato impudente del megafono,
rilanciata dai pulpiti e dalle manifestazioni politiche.

L’io ipocrita che qui abbaia vuole infine metterci in riga
comandando ciò che uomini e donne devono fare e pensare,
come vanno contingentati i loro diritti e inteso il senso
della loro vita da tenere a dovere sotto controllo dall’alto.

Il sorriso scettico può talora riparare il ghigno giulivo,
anche se ancor meglio può farlo per contrasto il riso cupo,
giù lungo il grugno, contro l’amante infervorato dell’io
che lo reitera in ogni occasione e a ogni piè sospinto.

L’interlocutore di Watt s’arrischia a definirlo dianoetico,
il riso dei risi, il risus purus, che ride anche dell’infelicità
nel credersi detentori di un io tutt’altro che mostruoso,
ma che si ride e si piange addosso amandosi turpemente.

Se poi quell’io è propriamente ipertrofico e bulimico
e si gonfia a palla a dismisura stracontento di sé,
lo potrà sgonfiare in parte la risata ululante del disprezzo
che esso patisce assai nel suo voler essere adorato.

Ricacciamola indietro quell’impudente deiezione
che vuole ostentare il suo ceffo dappertutto
ammantandosi doppiamente di false verità e d’illusione,
di una fede in lui che è come una fede in un dio!

Tra l’io e il dio si hanno infatti reciprocità
ed essi si danno sostegno salvifico scambievolmente:
anche il dio si ipertrofizza con l’io che si dilata
ricercando una salvezza dall’istanza umana che l’ha creato.

Solo un io pletorico ha realmente bisogno del dio,
e coloro che non si curano del loro misero io
non hanno alcuna necessità del dio che li riconfermi
nel decisivo rilievo del sé nelle pieghe dell’universo.

Saranno in ogni caso svergognati anche gli scettici
che condannano i prolissi e allegri mestatori dell’io:
sono difatti essi stessi costretti a vivere nel paradosso,
nella contraddizione d’essere affranti utilizzatori dell’io.

Da questa trappola non può purtroppo salvarsi nessuno
e ciascuno è esposto forse suo malgrado a cadervi,
ma è bene non desistere dal denunciare la tagliola
nonostante non si possa scampare mai dall’imbroglio.
Livio Bottani 27/10/2020 20:49| 996

Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore.
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