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        | Non ti ho ancora voluto dire che penso ad un sibilo di notte,
 che vedo ciò che non voglio sentire,
 
 che, per riflessioni preda di lotte,
 avvolte cerco rifugio lontano;
 lontano cerco di stare da botte...
 
 lontano: seppur perdo il mio sano
 corpo, per saziare il pieno petto,
 per empire il mio saturo vano,
 
 per sentire che il ventre del letto
 spinge calci, fruste, risse e sassi.
 Amico mio è questo l'affetto?
 
 Quanti abbracci per legarci bassi?
 Quanto disti tu poi da me, pietoso?
 Quante risa, movimenti e spassi?
 
 Quanto sono poi io per te lagnoso?
 Quante parole disposte a tenere?
 Quanti giorni sono stato ansioso?
 
 Non a dirti delle nuvole nere
 che copron dove la fragola rossa
 ha rifugio nelle gioiose sere
 
 d'un fino passato che fredda le ossa
 di mille e certe cose e fatti fatte
 e detti in urla chiuse in fossa
 
 come a ricordar il grido di matte
 e d'intrigo vaneggiar il piacere,
 di stoltezza nausearsi del latte
 
 che non voluto né offerto a bere
 a capirtene parlar mi ritrovo.
 E gelosia e sofferenza dolere
 
 e diffidenza e angoscia covo
 e rammarico e lacrime tante
 e male e dolore mai nuovo
 
 a coglierti vicino e distante
 a vederti assente a osservare
 -a crederti presente mai stante-
 
 seppur qui, lì 'l tuo volto a volare
 al vento; e gli occhi e il viso,
 che lor segue di fuori, a fiutare
 
 le membra, la carne, il petto liso,
 di chi ch'al dio denaro si presta
 scorgo io te; e sentomi ucciso.
 
 Non fui mai invitato a quella festa,
 non finsi ospite cercato apparir;
 e il terrore d'entrar per le gesta
 
 non era solo timidezza avvertir
 ma anche saper che 'l terrore stesso
 suonava sì stonato per finir.
 
 Il blu da chiaro diventa si spesso
 ch'ogni passo stanchezza lascia lasso
 di sentirmi tra i dannati messo,
 
 a voler come dar vita a un sasso,
 a sperar che ciò che mi dici taccia
 ma costretto alla causa del grasso,
 
 sta lì a sostener la mia faccia
 che un dì d'autunno arrivi
 sol per te l'estiva brezza ch'allaccia.
 
 E così, convinto che tu partivi,
 abbandonato il porto avrei sentito,
 io, quello lì, d'esser: ma non pativi
 
 che il ciel non ti avria sfavorito
 ch'egli a me sfavoriva le mi' stelle:
 mai potrò sfavorir perché, pentito,
 
 chiedomi da dove osservi le stelle.
 Giacché ciò ch'io vedo, ancor visto
 è da te: un universo di stelle.
 
 Lo stesso direi io, ma come disto
 metri e righe, poi apparti affetto
 ciò che parmi amore. Eppur misto.
 
 Come un virus che inganna stretto
 a dare per sé altro sé le celle,
 del tuo creante creando un tetto
 
 solo, ma ingozzato faccio lamelle
 che trinciano la mia debol sembianza
 dissolvesi in te sussultante pelle.
 
 Lo specchio appeso della mia stanza
 riflette ciò che di disgusto paio
 e d'ira e di delusion: la danza;
 
 può essere plasmato solo l'acciaio,
 mille forme diverse al materiale;
 ma quando a sera di luna appaio
 
 umor diverso e faccia uguale,
 il mio corpo, lo prendo e lo svuoto:
 stesso discorso che fummi fatale.
 
 Quand'ero lassù nel mare di vuoto,
 pieno solo di miliardi di luci,
 volli scoprire quell'abisso a nuoto.
 
 Chiesi ad un astro «dove conduci?
 Pronto a seguirti sono a trovare
 risposte e amici, tu che seduci.»
 
 «Non seguir me: a lui devi pensare.
 Laggiù Plutone svolge pensieroso:
 grande passione deve affrontare
 
 di sentirsi lento e affannoso,
 diverso nel cammino sempre et anco»
 Parlommi così, scappai a ritroso.
 
 Or brucia con te il caro fumo bianco,
 vano il ricordo di pece e rumore,
 bramo tra me il sapore stanco,
 
 pesante e voluto, fiuto e tumore,
 conosciuto, assetato e assente,
 a bocca a bocca cambia l'umore:
 
 quest'è che provi: tu e la tua gente!
 Fuggiva il corpo sempre a quell'ore,
 ove sempre l'anima è presente.
 
 Maledetto ciò che sembra calore,
 che gioca col sangue, mente e volto;
 che spoglia di giallo il celebre fiore,
 
 a cui tempo e distanza fan molto.
 Dimmi amico mio, qual è quel perno
 attorno a cui il problema è folto.
 
 Da questo mio reale da inferno
 sono forse catturato o perso?
 A quel vostro vero sempre eterno
 
 apparterrà mai il mio viso terso?
 Questo presente stato immutabile,
 che ogni giorno rinnovasi immerso?
 
 Muoverò mutato a quello stabile?
 Chè il vario ma uguale a sè stesso
 non dà la fiducia irripensabile?
 
 Sembra da tempo che io abbia smesso
 di sapere, di credere e sperare
 ch'egli possa arrivare un messo.
 
 E tanto poco vale aspettare
 che qualcosa sulla linea avvenga,
 ché di bellezza vuolsi sospirare,
 
 che di tripudi la tua mano tenga,
 (che mio orrore vederti arrossire!)
 che il peccato a te confesso, venga
 
 a esser perdonato, per non patire
 più le normali voci tue e vagite
 che fa supplicar Dio all'imbrunire.
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        | Opera pubblicata ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore. La riproduzione, anche parziale, senza l'autorizzazione dell'Autore è punita con le sanzioni previste dagli art. 171 e 171-ter della suddetta Legge.
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            | «La mia seconda poesia. Piena di sofferenza e dura da capire come anche da spiegare. Fa ancora male per me rileggere e sentire le sensazioni che ancora ricordo perfettamente. Eppure, avendo intrapreso questa strada, ora riseco a vedere solo luce. L'inizio della mia liberazione però iniziò così, con l'ammissione del dolore... Essere se stessi, sempre. Ora ha un vero significato! METRICA: terzine dantesca»
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