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        | Notte biancasul paese adagiato al crocicchio dei colli,
 tre colpi risuonarono per la via
 rimbombando per gli erti acciottolati,
 viscidi vicoli di sasso e muschio,
 rari lampioni ad allungar ombre
 cupe sulle sudice piccole porte
 serrate nel vivo della pietra,
 al fin si persero randagi tra i latrati.
 
 Dischiusero gli occhi che non videro
 rizzarono gli orecchi che non udirono
 vagò il sonno greve nel crocchiolare
 delle coscienze raggrumate nelle indifferenze.
 
 Riverso, inchiodato, rappreso coagulo del suo sangue,
 morto per mano di Giustizia,
 giaceva l'assassino sul limitare dell'abituro.
 
 Castro di villici non adusi al perdono
 luogo di rancide vendette
 di faide eterne e maledette.
 
 Fu funerale nel meriggio dei tetti fumiganti,
 frementi d'alito si scossero i buoi al pungolo, ansanti,
 cigolò la ruota sul selciato.
 Duro sul carro, fosco d'albagia,
 il padre dell'ucciso, cerberi occhi fissi furenti,
 ricco di vigneti fiorenti e molti armenti,
 prostrato avvolgeva la nuda cassa.
 Sussulti di dolore nel fluire dell'odio
 sanguinante dal cuore del granito,
 non tenue pianto,
 a tacitare l'anima del figlio compianto.
 
 Si mosse smunto il corteo dolente,
 nera cantava la prefica la sua morte
 mamma piangeva la sua mala sorte.
 Al seguito accorrevano i ragazzini a frotte
 ché lor sodale era stato
 di partite di pallone e sfrenate lotte,
 negli spiazzi di polvere
 tra vecchi muri di case diroccate
 e tavole di legno accatastate.
 
 E composero fila come tristo esercito alla guerra
 il più vecchio in capo, il piccolino la serra,
 intento eterno a ricacciare moccio nelle nari,
 morsi di freddo alle ginocchia rigate,
 purpuree e screpolate le manine serrate
 a custodire i suoi diletti tesori
 spago, biglie e figurine di calciatori.
 
 Staccato, secco e riccio, lacero nel saio,
 venne scalzo, Diego, viandante demente e pio
 di casa in casa mendico di pane raffermo,
 prodigo di compatito dolore per ogni infermo.
 Lui anacoreta savio, pazzo di scherno e lazzi,
 sulla via degli stenti opulenti acquistati a mazzi.
 Lui ossimoro vivente
 fissava co gli occhi cerulei il cielo negli occhi
 invocando dal Dio suo di tregenda vendette
 su quella villa dannata di faide eterne e maledette.
 
 Deposero la Fiera in quel ciglio di camposanto
 in faccia al muro alto,
 cancelli fioriti di ruggine, serrati,
 Gehènna di bimbi malnati,
 poveruomini da sè stornati
 e assassini assassinati.
 Bracci di croci disarticolate riverse
 sull'erme fosse,
 non ghirlande, colà invero alligna
 perpetua la gramigna.
 Morti raggelati nell'abbandono, invisi al perdono,
 non lacrime per lor ristoro,
 taciti echi del tempo che non rimonta.
 Pioggia da nembi decompone il tumulo silente
 e pioggia e pioggia e fiori di bufera,
 qui la Morte regna austera.
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        |  Questa poesia è pubblicata sotto una Licenza Creative Commons: è possibile riprodurla, distribuirla, rappresentarla o recitarla in pubblico, a condizione che non venga modificata od in alcun modo alterata, che venga sempre data l'attribuzione all'autore/autrice, e che non vi sia alcuno scopo commerciale. |  
 
        
        
        
 
 
        
        
            | «Era un bandito e un assassino ma sino a qualche anno prima,  prima che uccidesse un carabiniere, aveva giocato con noi, ragazzini del vicinato. Al suo funerale, improvvisato, non partecipò nessuno ad eccezione dei familiari, i ragazzi della via e lo "scemo del villaggio". Forse non fu giusto rendergli  onore ma io, con questa composizione, voglio solo raccontare una storia. Vera.» |      
     
 
                
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