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Al pallido orizzonte un cimitero
mestamente s’estende, e al cielo nero
e putrido e selvaggio sta l’ossame
verde di rame,
e la neve si gronda a’ sepolcrali
marmi, e a’ sassi e a’ sepolcri, e pe’i spettrali
e tremuli sentieri or v’è un cipresso,
cupo e depresso,
e quivi se ne giace e ignudo e in doglie,
e alla terra sen stanno l’egre foglie,
e ‘l ghiaccio si discende al tetro fusto
ormai vetusto.
Ormai ne tien qual fronde i spettri avìti,
occhi mesti e infernali e rei e smarriti,
e in ghirlande si grida a’ rami forti,
forse già morti;
e trafitto dal ghiaccio e cupo e tetro
al suo fianco si sta un crudel ferètro,
e alle radiche s’erge un osso istrano,
forse una mano.
Pur nella Notte fredda e antica e bruna
le stelle non ne son, non son la Luna
tra’i ramoscelli scialbi i lumi freschi,
ma appesi i teschi;
e questa mesta pianta è sempre amara
come una bara. | 
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